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I drammi di Joker

I drammi di Joker


Probabilmente ognuno di noi si è sentito un pò folle oppure no. Poi abbiamo bisogno di sensibilità, gentilezza, empatia e speranza per uscirne fuori. Un diritto al sostegno, alla presenza dell’altro che spesso viene a mancare.

Chi sono? Tutti abbiamo più o meno bisogno di trovare una risposta in noi stessi, per raggiungere non solo il nostro grado di accettazione e sicurezza emotiva interna (coesione) ma anche il nostro orientamento alla vita.  In tutto ciò siamo aiutati quando sappiamo più o meno chi siamo, rispettiamo la nostra indole e siamo capiti da coloro che ci sono vicini. Il contesto relazionale è fondamentale per la crescita psicologica.

Ma comprendere la nostra identità non è così semplice. La nostra mente è relazionale, sin dalla nascita ha bisogno dell’altro per capire e crescere, abbiamo bisogno di amore per sentirsi accettati, supporto emotivo e presenza fisica per crescere e affrontare la vita nel sociale; ma  non sempre le figure di riferimento sono presenti in modo sano, tanto meno le risorse di aiuto in ambito sociale e contestuali. La sofferenza umana si autogenera in un dolore interiore senza fine.

La società istituzionale non interviene negli aiuti psicologici e chiude gli occhi dinanzi a ciò che a noi professionisti della salute mentale e a chi si occupa di psicologia e sociologia risulta invece visibile. Già in tenera età i bambini vanno protetti da relazioni malsane e i genitori aiutati nella difficile impresa della crescita psicologica dei propri figli per la tutela della loro sanità mentale.

Allora ci chiediamo, quanto è complesso il processo di crescita identitario? Come viene deragliato dalle relazioni malsane e dall’indifferenza sociale? Quanta sofferenza procura tutto ciò?

Prendo spunto dalla storia di Joker poiché è rappresentativa di un malessere esistenziale e sociale caratteristico dell’uomo di sempre, ma ancor più di oggi. Evidenzia in maniera enfatizzata una sofferenza devastante e come viene a crearsi un disturbo molto grave di personalità . Il disturbo peggiora fino ad arrivare alla psicopatia – con un tempestivo supporto poteva perlomeno fermarsi? Chi ha toccato la sua sofferenza?

Qui nella storia di Joker ci addentriamo in un vissuto particolare i cui “traumi sono cumulativi” ossia diversi e ripetuti durante tutto il processo di crescita; intorno al personaggio ci sono diversi vuoti non solo affettivi. Niente e nessuno lo aiuta a “riorganizzare in modo relazionale” e sano  la sua mente e nessuno lo accompagna a fare un tentativo per trovare la sua identità. Il sociale violenta la sua mente con il rifiuto. Non c’è alcuna possibilità per lui. Ricordiamo sempre che è un film ma ci porta a riflettere su importanti sfaccettature e su come si arriva a distorcere la realtà, proiettando il dolore interno sul mondo esterno, in questo caso in maniera distruttiva.

Cominciamo dall’inizio:

Arthur, nasce da una madre patologica la quale ha una realtà distorta che il figlio interiorizza come unica realtà. Lui, non ha altre figure di riferimento con cui confrontarsi. Vive nell’inganno e nella distorsione di questa realtà. Una madre che non vede assolutamente la condizione di suo figlio ma esprime il suo “desiderio” che Arthur interiorizza nel tempo: “devi far ridere la gente” _ è l’unica direzione che all’inizio orienta la sua ambizione di vita. Lui che in qualche modo cerca di divenire il desiderio di sua madre. Un cabarettista che fa ridere la gente. Nel film vediamo un adulto malato, non si occupa di se stesso ma di lei, nutre la madre, le fa il bagno, se ne prende cura a modo suo. Del bambino che è stato sappiamo poco ma abbastanza da dedurre il   suo sviluppo psico-patologico.

Arthur in realtà non sa ridere, tant’è che disegna sul suo volto un sorriso, rappresentativo del personaggio desiderato da sua madre. La risata inquietante che esprime è la conseguenza di una dissociazione emotiva,  è il “conflitto inconscio” tra l’incongruenza della richiesta materna: “devi far ridere la gente” e la sua personale e autentica tragicità  dell’esperienza “c’è poco da ridere” quando sei nella tragedia della tua esistenza storica e attuale . Ne esce un sorriso inquietante e strozzato. Al suo nascere sembra che lo faccia morire. Lui è inconsapevole di ciò.

Un personaggio quindi che sin da bambino non è mai stato a contatto con  l’amore familiare, né tantomeno a contatto con la sua tragicità emotiva per integrarla al suo vissuto storico, ha rimosso gli eventi traumatici _ soprattutto non ha avuto la possibilità di relazionarsi  con menti organizzate sane e responsabili in modo che lo aiutessero a liberarsi dalle gabbie del suo doloroso vissuto. La sua realtà diviene non reale, diviene commedia, fino a ribattezzarsi in una forma identitaria che racchiude ed esprime tutto il suo dolore e la sua rabbia da cui poi prenderà il nome di “Joker”.

Azzardiamo il suo senso storico in base agli elementi che lui stesso ci fornisce.

Nasce senza un padre poiché lo ha abbandonato e disconosciuto. Non viene visto dai Servizi Sociali né da quelli Sanitari. E’ abbandonato tragicamente al suo destino sin da bambino.  Non ha alcun tipo di supporto, è un “non visto”. Prima di diventare Joker fa dei tentativi di divenire e comprendere il suo senso storico. E’ consapevole che ha bisogno di aiuto. Ricerca degli indizi che li diano delle risposte su chi è sua madre, chi è suo padre e trovare qualcosa di sé, indizi per la sua identità. Ritrova i traumi, il peggio che un figlio possa scoprire sono i maltrattamenti, gli abusi vissuti con la madre e gli abbandoni istituzionali. E’ la figura di un uomo profondamente ingannato e disconosciuto dagli affetti e profondamente ferito dalla vita, dall’indifferenza e poi dalla manipolazione della società capitalista.

Gradualmente, la verità che trova lo porta ad essere più confuso ed arrabbiato, diviene una mina vagante perché i suoi traumi si accumulano non solo nel suo presente ma anche nello svelamento di ciò che scopre essere  la sua storia, gli abusi, i maltrattamenti materni… il modo in cui si rivelano hanno un impatto emotivo uraganico su di lui. Anche qui nessuno lo aiuta ad elaborare queste scoperte e la sua mente è in balia della follia_ non ha nessun supporto per questi traumi svelati.  La sua confusione si implementa tra gli inganni di una società che non  tutela quel bambino maltrattato, poi non supporta quell’adulto disturbato.  Nel ritorno a casa “anestetizza” le sue emozioni, è il bravo bambino che si occupa della madre ma è un uomo arrabbiato che si esaspera nella sua solitudine. Chi è Arthur? Tanti sensi di ingiustizia che non trovano nessuno sfogo relazionale, nessuna accoglienza, nessuna comprensione, nessun contesto supportivo. Rimane solo. I suoi tanti traumi rimangono isolati in se stesso, e nonostante il suo bisogno di condividerli e  di cercare qualcuno che lo ascolti e lo aiuti viene nuovamente abbandonato dalla società, i fondi sanitari finiscono e lui non ha alcuna possibilità di recuperarsi, nemmeno con l’aiuto farmacologico. Non dimentichiamo che lui si  presenta agli appuntamenti con la terapeuta assegnata, anche se non si sente capito e viene accolto in modo poco gentile da lei, lui persiste_ si sfoga senza avere alcuna sintonia con la terapeuta che lo invita a scrivere i suoi pensieri senza alcuna possibilità di sintonia con lo stato emotivo sofferto; non c’è possibilità di ricostruire e comprendere emotivamente un uomo distrutto dall’esperienza vissuta. Qui è ancora un personaggio disturbato dissociato e istrionico, al limite della psicosi ma non ha ancora una organizzazione di personalità psicopatica. Arthur spera  e si aspetta di ricevere quella speciale attenzione e comprensione dell’altro di cui ogni essere umano ha necessità, si chiama “empatia”_ ne rimane profondamente deluso. Questa è la ri-traumatizzazione dell’assenza. Una piccola speranza che era ancora viva, muore e si reitera nella rabbia e poi nella follia.

Arthur Fleck si ribattezza in Joker il personaggio malvagio e vendicativo.

La sua identità parte quindi dal “disconoscimento di un padre” il vuoto affettivo lo ricerca a livello immaginario nell’idealizzazione in figure potenti e famose  _ figure  fortemente “idealizzate” affinché coprano un vuoto esistenziale. Con l’idealizzazione ricerca di interiorizzare figure forti, in fondo vuole un riscatto sociale e identitario. L’idealizzazione è un processo psicologico che tende a interiorizzare dentro di sè una figura che dà forza e vigore, ciò che non è stato presente, si idealizza; tutto ciò a iuta a mantenere un grado di coesione con se stessi. Un’ illusione che poi ripetutamente si perde perchè c’è la delusione di ciò che avviene nella realtà, poichè appunto, idealizzato significa che non è del tutto reale. Con questi uomini idealizzati non ha alcun reale legame. E’ un bisogno di forza che lo sostiene emotivamente. Ecco l’importanza della figura del padre e del bisogno di ogni figlio di averlo vicino

La figura del padre aiuta a rafforzarsi emotivamente e affrontare il sociale. E’ una figura che resta dentro, sia nella presenza che nell’assenza.

L’umiliazione, l’inganno e la delusione lo segnano nuovamente: “ l’inganno della madre” e il disconoscimento di un immaginario padre _ e l’umiliazione da parte di una figura che ammira e idealizza come una figura che lo guarda con occhi esclusivi e speciali. Idealizza infatti la figura di  Rober De Niro; immagina di ricevere empatia e ammirazione da lui e dalle  persone su cui lui esercita la sua influenza. Immagina di essere il suo  pupillo ma nella realtà viene umiliato pubblicamente e ingannato anche da questo personaggio di cui successivamente si vendicherà. Dopo l’idealizzazione si ha un “crollo emotivo” difficile da recuperare se non si viene aiutati a capire.

Lui è sensibilizzato al disconoscimento, e all’inganno. La sua vita diviene un teatro, la sua vita è stata una commedia, tutti han recitato una parte ed è l’unica realtà che conosce. Ha vissuto in una realtà distorta e confusa.

C’è ad un certo punto una confusione su cosa è la realtà. Cosa è accaduto? Sua madre è stata ingannata da un uomo influente? Quale verità? Oppure sua madre lo ha sottoposto ad un ambiente di maltrattamenti e abusi? Di chi deve fidarsi Joker? Quanta confusione ha in testa?

Il difendersi con la violenza diviene la sua unica identità possibile perché da quell’episodio di “legittima difesa” sulla metro comincia ad essere casualmente “visibile al mondo” _ comincia ad esistere per la società solo quando diviene ciò che non avrebbe mai pensato di diventare. Prima crolla, anche qui da solo; poi comincia a godere del suo protagonismo ed è meno solo; diviene un eroe ammirato. Joker perpetua la sua identità nella sua onnipotenza malata.

Chi è Joker?

Joker è un personaggio psicopatico che vive nel rifiuto di tutti, non ha mai avuto la possibilità di capire chi è _ non ha esperienze amorevoli alla base, tantomeno nel presente. E’ un uomo emarginato da chi prima di tutto poteva vedere e proteggere, è stato disconosciuto da tutti.

Un film non per tutti. C’è bisogno di un equilibrio mentale per vederlo e riflettere su come certe dinamiche della vita segnano profondamente. Lui ha traumi cumulati nel tempo, non trova via d’uscita. La sua mente è malata nella cronicità malata della società e dalla mancata presenza di affetti, dalla presenza di persone per niente gentili.

Abbiamo tutti bisogno di un ambiente più o meno sicuro che ci dia una possibilità, una famiglia più o meno amorevole per crescere se non felici sereni. Ma se l’ amore e il rispetto non lo troviamo in famiglia è bene ricercarlo nelle relazioni, quella che oggi con l’abuso dei social stiamo perdendo. “La nostra mente si forma in relazione con altre menti”. Il contesto educativo, sociale e supportivo esterno alla famiglia resta importante per compensare le mancanze _non dimentichiamolo, possiamo avere sempre una seconda possibilità se proviamo a cercare un “nuovo” un “diverso” rispetto ciò che fu.

Approfondimeto clinico:

Un sano sviluppo evolutivo e l’identità più autentica  tesa verso l’integrazione dipende dai rifornimenti emotivi e le cure materne (ma non solo) che permettono al bambino di iniziare la sua vita esistendo, non reagendo ai cosiddetti urti considerati invece come i non adattamenti materni al bambino. Solo in questo modo le persone vivono creativamente e sentono che la vita merita di essere vissuta  (Winnicott 1971).

La teoria della mente di riferimento è la   psicoanalisi relazionale che considera l’eterogeneità delle teorie  psicoanalitiche e le integra in termini di complementarietà. Ogni teoria psicoanalitica serve a darci contributi significativi e importanti per comprendere la psiche umana, come strutturiamo la nostra identità e sul come lavorare in ambito terapeutico.

La psicoanalisi relazionale parte dal presupposto che la mente è fondamentalmente diadica e interattiva “la mente è relazionale”; ciò significa che tutti noi ci organizziamo emotivamente e strutturiamo la nostra personalità in base alle relazioni con gli altri _ in primis con le figure di riferimento. La mente ricerca contatto, il rapporto con altre menti. C’è sempre una inclinazione temperamentale ma l’esperienza relazionale con gli altri ci permette di organizzarci in maniera più o meno sana o malsana. Il modo in cui ci percepiamo, creiamo legami affettivi e relazionali, esploriamo il mondo in buona parte dipende dal nostro bagaglio affettivo ed esperienziale.

I traumi se sono cumulativi ossia ripetuti  (Masud Khan) e relazionali mettono a dura prova la sanità mentale di ogni psiche umana.

Il  protagonista “Arthur” ha una personalità disturbata altamente dissociata, confusa, disorganizzata con sé e con gli altri. Il disconoscimento, la malattia materna, gli abusi e i maltrattamenti, l’essere bullizzato, l’essere umiliato, e il non avere alcun tipo di riferimento lo portano al delirio completo di sé.  Lo “stile di attaccamento” come direbbe John Bowlby è disorganizzato e invaso dalla paura. Il contatto col mondo fa paura. Il disorientamento materno diviene il suo. E’ un personaggio rifiutato.

L’unica mente con cui si è relazionato infatti  è quella materna _ ma da cui ne esce confuso e deluso. La patologia psicotica della madre che è fuori dalla realtà lo disorienta e l’organizza in maniera malsana. E’ una personalità completamente dissociata dal suo vissuto storico, quindi non sa chi sia anche se  va ostinatamente alla ricerca. Si ritrova ad essere un personaggio dal sorriso forzato. Interiorizza la realtà distorta e il desiderio materno.

Come ci ricorda Daniel Stern  vari sensi del sé hanno necessità di sperimentarsi per la formazione della nostra identità. Tutto ciò è stato assente nel personaggio che stiamo trattando.

  1. Il senso di essere soggetti agenti, senza di esso possono aversi paralisi, la sensazione di non essere padroni delle proprie azioni, l’esperienza della perdita di controllo degli agenti esterni.
  2. Il senso di coesione fisica, senza di esso possono aversi esperienze di frammentazione corporea, spersonalizzazione, esperienze extracorporee, derealizzazioni.
  3. Il Senso di continuità, senza di esso possono aversi dissociazione temporale, stati di fuga, amnesie, la perdita della sensazione di continuità dell’esistenza.
  4. Il senso dell’affettività, senza di esso vi è può essere anedonia e stati dissociativi.
  5. Il senso di un sé soggettivo permette di stabilire rapporti intersoggettivi con gli altri, la mancanza di esso porta ad una solitudine cosmica o all’altro estremo trasparenza psichica.
  6. Il senso di essere produttore di organizzazione, senza il quale vi può essere caos psichico.
  7. Il senso di poter comunicare significati, la sua mancanza può portare ad una esclusione culturale, scarsa socializzazione, e mancata validazione delle conoscenze personali.

I differenti sensi del sé in realtà maturano e cambiano e Stern riflette sulla possibilità di come avvenga tale cambiamento e si chiede se ciò è dovuto ad una maturità del bambino e della sua esperienza o ciò è dovuto alla nuova attribuzione che il genitore fa di lui. Per esempio il sorriso del bambino avviene per maturità o perché viene stimolato dal clima emotivo delle persone che lo circondano. Nel  cambiamento nella nuova capacità anche gli adulti interagiscono diversamente; tale paradosso si risolve con l’affermazione che i due sensi del sé cambiano in interazione l’uno con l’altro. Il clima emotivo di lui è tragico il “desiderio interiorizzato della madre”: <<sorridi per far ridere le persone >> senza che ci sia alcun clima emotivo favorevole alla sua crescita lo disorienta. Lui subisce molteplici traumi mai elaborati e accolti. Nessuno lo aiuta.

Il tentativo di contatto con la terapeuta (cognitivista comportamentale) non lo connette nè con le sue emozioni, né col suo senso storico e lo imprigiona in quelli che sono i pensieri negativi. Lui cerca empatia, supporto e accettazione ma soprattutto un aiuto per non soffrire così dolorosamente;  fa uso e abuso di psicofarmaci ma ha necessità di essere ascoltato. La sua mente è completamente disorientata e disorganizzata dall’incomprensione totale col mondo. E’ già un uomo molto malato. Il lavoro di equipe non esiste.

Anche “dal punto di vista neurobiologico il terapeuta sintonizzato ha quindi un’opportunità per agire come regolativo affettivo interattivo degli stati privi di regolazione del paziente” (Schore, 2002). “Il terapeuta che vuole comprendere cosa è successo al bambino il cui sé adulto è venuto in trattamento, diventa il testimone che rende possibile all’adulto di fare esperienza di tutto l’orrore della sua storia e quindi di cominciare a guarire. Quella che chiamiamo diniego o dimensione inconscia, può essere un’esperienza di cui non si è mai fatta veramente esperienza. I fenomeni dissociativi sono il risultato dell’assenza di un testimone convalidante in momenti cruciali della storia della persona”. (Orange, Stolorow e Atwood, 1992). Nel film il terapeuta è  del tutto assente come figura responsiva ed empatica. Anche qui nella sua speranza e nel suo bisogno di supporto per la sua mente il protagonista trova il vuoto dell’altro. “In un setting analitico appropriato vi è la possibilità per i domini dissociati del sé di sviluppare, insieme all’analista, quegli aspetti dell’esperienza non simbolizzata che consentiranno agli elementi motori, affettivi, immaginativi e verbali di fondersi con una memoria narrativa pertinente nel contesto di un qualche cosa prima inconcepibile”. (Bromberg, 1998).

“Niente può creare un legame più del prolungato tentativo di trovare insieme il senso della vita emotiva di qualcuno” (Orange, 1995) ma lui era solo.

Le figure interiorizzate sono di disconoscimento (padre) e ingannevoli e patologiche (madre).  Il padre e’ una figura che lo  disconosce totalmente, visto che non sa chi sia_ dentro di sé porta questa profonda ferita di vuoto, abbandono e rifiuto mai riparata o compensata con nessun altra relazione. Vive infatti una condizione esistenziale di emarginato, di invisibile. Quel vuoto lo induce a fantasticare la possibilità di piacere ed essere accettato da  due uomini forti,  influenti  e conosciuti a livello sociale. Uno è l’ipotetico padre, uomo politico;  l’altro da cui vorrebbe essere accettato è il personaggio che ricopre Robert De Niro. Non solo si identifica con lui ma fantastica di essere accettato da lui come un cabarettista speciale, una persona che idealizza nella possibilità di ricevere empatia per la sua storia ma anche amore.  L’idealizzazione di una persona fornisce forza e contenimento in un momento difficile ma altrettanto si frammenta dinanzi alla disillusione e delusione che anch’essa può ferire. Se ti ferisce la persona che si è idealizzata si crolla, perché la forza che traeva dall’idealizzazione viene a perdersi poichè reggeva la speranza, la possibilità di una riparazione profondamente affettiva ma soprattutto la sua coesione interna. La realtà è che proprio colui che aveva idealizzato nel suo intimo immaginario,  come una persona altamente empatica ed accettante di sé lo umilia pubblicamente, ne rimane doppiamente ferito (ri-traumatizzato) fino a vendicarsi di lui, pur non avendo alcun reale legame affettivo. Questo ci spiega come alcune ferite si organizzano intorno a distorsioni e fantasie di possibili riparazioni anche se non c’è alcun legame reale. “L’organizzazione psichica del bambino tenta di affrontare le situazioni irregolari costruendo nuovi sistemi di perfezione. tra cui l’idealizzazione”, (Heinz Kohut, 1978).

La madre è una figura patologica, e sembra che sia lui a prendersene cura. Mancano tanti dati. Non si capisce cosa  sia avvenuto veramente durante la sua infanzia ma la gravità della sua patologia  ci fa pensare che la sua disorganizzazione psichica sia stata dovuto ad ulteriori traumi come  l’abuso e il maltrattamento durante la sua infanzia. La confusione è quanto sia stato reale tutto ciò è quanto sia stato manipolato da persone influenti, ossia l’ipotetico personaggio del padre che fa internare sua madre e falsa le carte per salvarsi la faccia. Questo rimane confuso, come confusa e disorganizzata rimane la sua mente e la sua identità. 

Il “desiderio della madre”: <<sorridi per far ridere le persone>> ;  il desiderio di lei diviene la sua ambizione. Qui siamo all’interno di una cornice narcisistica materna di cui Heinz Kohut si occupa per tutta la sua vita.  Una madre con patologia narcisistica di personalità non è capace di empatizzare e rispecchiare il bisogno del proprio figlio ma lo fa agire secondo i suoi bisogni. Una componente narcisistica dei genitori moderni che è sotto gli occhi di tutti.  Non c’è alcuna possibilità per lui di trovare la sua reale ambizione, la sua reale identità. Forse sarebbe stato un bravo ballerino! Ballando autoregola la sua colpa. Lui si appoggia al desiderio della madre , si espone ma  le persone ridono  di lui, della sua goffaggine e della sua stranezza. La risata spontanea nei momenti di tensione denota probabilmente la sua dissociazione emotiva: <<vivo nella tragicità e devo pure sorridere per far ridere>>. Che assurdità! Quando non si è consapevoli delle proprie emozioni e di alcuni vissuti che sono nella memoria emotiva il corpo parla. La risata strozzata al suo nascere è simbolo della sua tragicità esistenziale.

Il rischio di una ritraumatizzazione conduce alla dissociazione patologica e al fallimento della simbolizzazione o all’impoverimento della capacità di rappresentare cognitivamente esperienze affettivamente intense o complesse”(Bromberg, 1998).

Si ribattezza  “Joker” e comincia ad ostentare il desiderio di un riconoscimento sociale ormai malsano reiterato dalla malattia. “L’individuo offeso narcisisticamente, non può trovare pace finché non ha cancellato un nemico, percepito indistintamente, che ha osato opporsi a lui, essere in disaccordo con lui, oppure lo ha messo in ombra” (Kohut, 1978).

La rabbia si verifica in molte forme: tutte presentano, tuttavia un aspetto psicologico specifico che dà loro una posizione definita entro l’ampia area dell’aggressività umana. Il bisogno di vendicarsi, di raddrizzare un torto, di annullare un danno con qualsiasi mezzo, e un’implacabile coazione, profondamente ancorata, a proseguire tutti questi fini, che non dà riposo a coloro che hanno sofferto di una ferita narcisistica, sono le caratteristiche della rabbia narcisistica i tutte le sue forme, che la distinguono d altre specie di aggressività, (Kohut, 1972).Qui siamo nell’ambito della patologia narcisistica maligna.

Interrogarsi sul momento negativo permette il risveglio. ( J.Benjamin, 1998), ma c’è bisogno di tante menti e di un sistema solido che lo aiuti a riorganizzarsi.  Joker si risveglia onnipotente circondato da altrettante menti arrabbiate e deluse  dalla società.

“La dissociazione  è una funzione normale e adattiva della mente che esclude dal campo della coscienza stati di sofferenza intollerabili, legate a realtà esterne ed interne; è un meccanismo che mette al riparo la coscienza ordinaria dall’inondazione di stimoli dolorosi, come quelli di origine traumatica. In qualche modo ci si costruisce una realtà parallela più favorevole dove trovare rifugio.  Questo ritiro temporaneo o rifugio non è patologico ma può essere messo al servizio dell’io (per la creatività, delle relazioni e dell’energia personale).  Se però tende alla reiterazione eccessiva e alla dipendenza morbosa si rischia la coazione all’isolamento, alla distorsione del senso del sé e delle relazioni fino alla perdita del contatto vitale con la realtà sfociando in disturbi psichiatrici” (Bromberg, 1998).

Nel delicato lavoro terapeutico “L’esibizionismo arcaico e la grandiosità  devono essere trasformati gradualmente in autostima inibita nella meta e in ambizioni realistiche, il suo desiderio di fusione con l’oggetto-sé arcaico onnipotente deve essere sostituito da atteggiamenti che sono sotto il controllo dell’io come per esempio l’entusiasmo per ideali significativi  e della sua devozione ad essi”(Kohut, 1978).

Ma Arthur era stato lasciato da solo sin da bambino. La sua mente si era ammalata molto precocemente fino a sfociare in un esibizionismo arcaico e pericoloso del suo essere senza nessuno e di divenire Joker, il malevole personaggio che si autosostiene nella sua stessa malata onnipotenza che si autoperpetua.

La società ha bisogno degli psicologi. La patologia narcisistica, la istrionica e la dissociata e l’antisociale_ tutte organizzazioni di personalità particolari, sono oramai sono sotto gli occhi di tutti proprio perché invisibili sotto altri punti di vista. Quanta prevenzione si potrebbe fare se ci fosse la responsabilità e buon senso di essere tutelati se non nell’amore in quella dignità umana per cui bisogna lottare in maniera saggia proteggendo da umiliazioni e traumi i bambini già in tenera età. Ma anche noi professionisti siamo impotenti, stanchi e soli dinanzi a tanta pazzia “istituzionale”. Si conosce molto di come ci sviluppiamo e la prevenzione psicologica aiuterebbe a tutelare le identità e facilitarne la crescita. Ci si ammala quando si è troppo deragliati dai propri bisogni e dall’empatia verso l’altro.

Questo è un film che permette di calarti empaticamente in un personaggio patologico e di vederne le mille sfaccettature che provocano tanti traumi ma ricordatevi di “differenziarvi” per non cadere nella trappola della sua mente, ricordandovi di riconoscere la vostra perchè Joker rimane un personaggio drammatico e per fortuna di fantasia. La sofferenza umana diverrà mai veramente visibile per essere affrontata?

Marialba Albisinni, psicologa, psicoterapeuta, (or. psicoanalitico relazionale)

Psicoterapia e Psicoanalisi- La Psicologia del Sè


Heinz kohut

Dalla cura psicoanalitica di Heinz Kohut: <<L’esperienza mi ha insegnato come sia errato guidare il paziente all’analisi di traumi precoci>> Continua a leggere “Psicoterapia e Psicoanalisi- La Psicologia del Sè”

Le Neuroscienze e il Processo Psicoanalitico Relazionale: regolazione e cervello


cervello-Studi neuroscientifici dimostrano come la relazione  terapeutica e duratura, tipica della psicoanalitica relazionale ed intersoggettiva, permette di stimolare alcune aree del “cervello destro“, deputato all’elaborazione e al riconoscimento degli “stati di consapevolezza” e a richiamare “contenuti inconsci” presenti nel nostro sè storico e di ri-organizzarli in “nuovi modi di regolazione interattiva” tra sè e  il terapeuta.

Riflettendo su cos’è la psicoanalisi – Oltre la psicofarmacologia: la relazione e l’autoriflessività. Continua a leggere “Le Neuroscienze e il Processo Psicoanalitico Relazionale: regolazione e cervello”

Autostima:quando manca l’equilibrio narcisistico nel senso del sè


picassoCarl Gustav Jung scrisse in  ” Psicologia dell’inconscio” (1942) “è vero ciò che dice Freud a proposito della rimozione dell’Eros, ma l’attività psichica non è solo quello, anzi ciò è solo una piccola parte”.

L’equilibrio narcisistico corrisponde alla propria autostima ossia  alla capacità di riconoscersi  e comprendersi con le proprie molteplicità, alla sensazione dice Kohut di sentirsi coesi.  Nel disturbo narcisistico l’armonia con se stesso e con l’altro è compromessa. Continua a leggere “Autostima:quando manca l’equilibrio narcisistico nel senso del sè”

Sono autentico o occultatore?


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Quanto ci si sente autentici con se stessi e quanto compiacenti con gli altri? Probabilmente quest’ultima modalità è poco consapevole ma causa di importanti disagi. Esperienze di involontario deragliamento portano alla confusione di chi si è, di quanto ci si percepisce reali  ed  autentici.    Ancora oggi, la teoria di Donald Winnicott, un autorevole pediatra e psicoanalista mancato negli anni settanta è suffragata da alcune recenti teorie e dalle esperienze che le persone narrano in modo profondo in ambito clinico. Egli asserisce che esiste un “Sé centrale” o “Vero sé” definito come Continua a leggere “Sono autentico o occultatore?”

Disturbi depressivi -riferimento DSM-IV


depressioneQuella che comunemente viene chiamata “Depressione” rientra in una più ampia categoria diagnostica ( “Disturbi dell’umore”) che racchiude in sé diverse tipologie di disturbi, caratterizzati principalmente da un’alterazione dell’umore, quindi da un avvilimento psico-fisico generale della persona che sperimenta sentimenti di tristezza, vergogna, inadeguatezza, senso di colpa e perdita di interesse generale. Continua a leggere “Disturbi depressivi -riferimento DSM-IV”

Narcisismo e Psicoterapia: la ferita narcisistica genera rabbia


Art.correlato “L’efficacia in Psicoterapia”

– Che cos’è l’equilibrio narcisistico? Cosa lo differenzia dal patologico?

“L’ equilibrio narcisistico” è fondamentale per l’ esistenza di ogni essere umano e con equilibrio mi riferisco a ciò che intende la psicologia del sè: è la condizione di equilibrio interno in cui i nostri valori, ideali, principi, ambizioni e mete possono avviarsi; sono in qualche modo attivi, organizzati e armonizzati in termini di  vitalizzazione verso il nostro naturale  senso di autorealizzazione. L’equilibrio narcisistico concide con la sensazione di sentirsi in qualche modo “coesi” con se stessi e questo può avvenire se si è stati emotivamente sostenuti ed affettivamente riconosciuti. Continua a leggere “Narcisismo e Psicoterapia: la ferita narcisistica genera rabbia”

“La depressione: narcisismo e vulnerabilità”

“La depressione: narcisismo e vulnerabilità”


Notte stellata sul rodano
Notte stellata sul Rodano- 1888 -Vincent Van Gogh

...E che a nessun costo ero disposto a rinunciarvi in futuro alla storia, sol perchè in passato avevo di essa sofferto. …e ciò che dissi contro <>, lo dissi come uno che di essa imparava lentamente, faticosamente a guarire. Friedrich Nietzsche, da Umano troppo umano, vol. sec. Continua a leggere ““La depressione: narcisismo e vulnerabilità””

L’autostima e il valore di sè


L’autostima è una necessità umana fondamentale, si avvia e sviluppa attraverso le relazioni affettive e relazionali; più è solida la nostra autostima, meglio si è equipaggiati ad affrontare le difficoltà quotidiane.  Più abbiamo avuto la possibilità di sentirci amati, avvalorati come persone più la nostra autostima risulta coesa ed integrata, più immune alle vulnerabilità della vita. Continua a leggere “L’autostima e il valore di sè”

L’ ansia e l’attaccamento


 E. Munch – L’urlo

Recentemente le teorie sull’attaccamento ci spiegano come le relazioni tra madre e figlio, in qualche modo mal funzionanti nei primi anni di vita, costituiscono fattori di rischio per strutturare stili di attaccamenti insicuri e  disturbi in età adulta. Tali teorie spiegano il funzionamento della mente e lo sviluppo della personalità in termini evoluzionistici. Continua a leggere “L’ ansia e l’attaccamento”