Vogliamo essere amati. In mancanza di ciò ammirati; in mancanza di ciò temuti; in mancanza di ciò odiati. Vogliamo suscitare negli altri qualche sorta di emozione. L'anima trema davanti al vuoto ed ha bisogno di un contatto ad ogni costo. Hjalmar Soderberg
Con la Psicoterapia si possono risolvere problemi che derivano da conflitti inconsci e che influiscono pesantemente sul comportamento di una persona, mettendone gravemente a rischio la vita, la felicità, il successo, la possibilità di soddisfazione. Si tratta di difficoltà che possono indurre anche chi è ragionevole, intelligente, responsabile e un infaticabile lavoratore a comportarsi in modo folle in alcune situazioni, danneggiando gravemente se stesso e gli altri. www.psicoterapiaeconsulenza.com
I conflitti inconsci sono difficili da comprendere e portare alla consapevolezza. La psicodinamica se ne occupa da sempre. ✍Spesso per es. seguo persone che hanno un gran successo nella vita, una bella famiglia, un buon lavoro etc. ma non riescono a goderne o a sentirne soddisfazione. ✍Oppure persone che hanno ambizioni ma non riescono a metterle in atto. ✍Ci sono persone che si mettono sempre da parte pur se non è quello che desiderano. ✍Oppure persone che vivono con sintomi che pilotano la loro vita. ✍Persone che desiderano relazioni stabili ma che sono i primi a distruggerle. Sono soltanto pochi esempi di drammi interiori che a lungo andare sono sempre presenti anche in età adulta. Allora dobbiamo attivare un po’ di fiducia verso la consapevolezza e il cambiamento interiore. La fiducia sul professionista, sulla conoscenza clinica di tante psicoterapie andate per così dire a buon fine. Allora cosa interferisce fuori dal proprio controllo? Bisogna avere una buona motivazione a stare meglio e migliorare la propria vita psichica e di riflesso la vita quotidiana. ✍Il conflitto può risolversi solo se lo si vede. Il conflitto e l’interferenza che ostacola il quieto vivere si può comprendere solo con l’alleanza terapeutica, con una buona relazione terapeutica, con una buona sintonia… con il confronto aperto e sincero. Immergersi nella comprensione sulla propria storia per andare oltre quell’ inconsapevole e assecondare il processo di crescita psicologico che fa fatica a proseguire. Ho visto tante volte quanto è possibile… ma tante volte ho visto che per alcuni è facile per altre persone è più complesso, ci sono molte resistenze da ostacolo e là che ci vuole un lavoro di impegno e responsabilità verso se stessi e la propria vita, affidandosi almeno per un po’ .
L’identità corrisponde al modo in cui ci percepiamo soggettivamente, al modo in cui ci rappresentiamo e vediamo con trasparenza il nostro mondo interno e lo seguiamo secondo le nostre inclinazioni, i nostri orientamenti valoriali, le nostre passioni e interessi che vengono perseguiti senza conflitti. Abbiamo più o meno una stabilità emotiva e una cognitiva e coerenza nel modo in cui ci percepiamo e percepiamo gli altri.
Mentre negli adolescenti è naturale che queste rappresentazioni di sé siano più o meno confuse e instabili, poiché si sta attraversando l’esperienza di crescita fisica e psicologica di cambiamento su chi sono e chi desiderano diventare, negli adulti questa identità è più o meno organizzata in modo stabile e coerente. Se non ci sono state esperienze di deragliamento evolutivo o traumi relazionali, la conoscenza della propria persona prosegue verso la chiarificazione e la realizzazione di vita.
Questa stabilità e coerenza interiore permette anche di vedere con più chiarezza chi si ha di fronte e di capirne più o meno la personalità, il buono e il negativo si alternano e integrano e si accettano come sfumature possibili che coesistono; per esempio la persona con cui si ha un legame non viene abbandonata solo perché si vede il difetto temporaneo. La percezione stabile di sé e degli altri permette infatti di tollerare l’ambivalenza che spesso c’è nelle relazioni senza mettere sempre in discussione ciò che si è e ciò che è l’altro in base a elementi apparentemente poco significativi.
Tuttavia non tutti gli adulti hanno una chiara percezione di sé; tale confusione è il campanello di allarme che aspetti della propria persona sono troppo disorganizzati o sono rimasti sconosciuti, inespressi, a volte negati e quindi ci si percepisce semplicemente “confusi e disorientati” si tende a vedere secondo un registro rigido e dicotomico nella prospettiva del bianco o del nero in cui i meccanismi di difesa proiettivi di qualcosa di me sull’altro o la scissione (buono e cattivo) o il senso di onnipotenza poco realistica confondono la percezione identitaria.
<< Cara dottoressa, sto male _ sono una sognatrice ma non so cosa voglio, comunque sono una fallita ma credo che la colpa sia degli altri;
per me lui era così dolce e disponibile, mi dava attenzione _ ma poi si è rivelato tutt’altro perché non mi risponde subito al telefono, a volte lo sento distante e freddo, così non l’ho più cercato, poi era strano a volte la sua presenza mi soffocava.
Anche io sono dolce e disponibile ma poi divento cattiva.
Non ho chiarezza di chi sono alcune persone, io mi comporto sempre bene perché non sbaglio mai, quindi mi allontano perché l’altro si comporta male. Questo mi succede con tutti e non trovo l’ uomo giusto. Sono io o sono loro? Sono molto confuso e in ansia>>.
In queste frasi non c’è assolutamente consapevolezza della confusione identitaria che si nasconde dietro queste continue contraddizioni. Sia lei che l’ altro sono percepiti in base alla disponibilità, la freddezza e la mancanza temporanea. Non c’è una valutazione nell’interezza identitaria. C’è un ambivalenza percettiva e una rottura continua che si ripete nella difficoltà di mantenere relazioni importanti tra il bisogno di averci una disponibilità e al contempo di allontanarla. Nel mezzo e centrale c’è la cosiddetta “diffusione d’identità” per cui si è confusi su chi si è, e su chi sono gli altri; il lavoro di meccanismi difensivi proiettivi e di scissione confondono il confine identitario.
Otto Kernberg, noto psicoanalista ci parla di “dispersione o diffusione dell’identità” per cui l’esperienza di sé e degli altri e molto instabile, si cambia continuamente la percezione della propria persona prima svalutandosi molto poi sopravvalutandosi fino ad idealizzarsi. L’immagine di sé e degli altri cambia continuamente. Ci sono oscillazioni troppo disconnesse, il bianco o il nero (dovuto a meccanismi difensivi di scissione) prendono il sopravvento alternandosi e quando si subisce per esempio un piccolo torto, l’altro diviene tutto il nero possibile; oppure quando si sbaglia su qualcosa e ci si tende a svalutare in maniera troppo negativa “non valgo”; oppure si tende a sopravvalutarsi quando ci si percepisce un ambizione che però non è stata mai portata a termine. Il problema è che la percezione del bianco annulla la percezione del nero, con la difficoltà ad organizzare e riconoscere che le oscillazioni possono coesistere senza necessariamente scindersi. Tale incostanza percettiva di sé e degli altri è fonte di sofferenza e denota scarsa consapevolezza di sé e della propria storia in termini di confini identitari e continuità. Si parla in questo caso di organizzazioni di personalità molto instabili e disorganizzate che al contempo soffrono di questa immensa confusione emotiva; in ambito diagnostico le identifichiamo come Organizzazioni di Personalità Borderline. Ciò non deve mai impedire di vedere l’interezza della persona ma ci facilita a contattare le parti di sé poco funzionali e di sofferenza che emergono durante gli incontri di psicoterapia.
Vediamo nello specifico le difficoltà di chi ha sviluppato la percezione di quel bianco e nero che polarizza, frammenta, entra in contraddizione con aspetti di quel me e dell’altro che non solo crea sofferenza interna, confusione e instabilità ma disconnette anche troppo dagli altri.
Ciò che è evidente sono diverse rappresentazioni di sé e manifestazioni comportamentali, anche se non sempre si presentano tutte insieme, ma il numero maggiore di queste condizioni ci indica più o meno il livello di gravità. Per comprendere questo aspetto, di seguito prendiamo in esame le caratteristiche di personalità specifiche elaborate da Otto Kernberg e il suo gruppo di lavoro che caratterizzano questa confusione di identità:
In Ambito studio/lavorativo
Abbandoni scolastici e impegni vari;
Si percepisce inefficiente:
L’instabilità nelle relazioni e nel lavoro;
Insoddisfazione per il proprio lavoro;
Instabilità negli impegni e cambiamenti vari;
Gli obiettivi non corrispondono alla carriera intrapresa;
Le attività che si intraprendono non hanno molta rilevanza e significato;
Detesta lo studio o è indifferente e non trae alcuna gratificazione:
Non identifica alcuna attività che implichi un significativo investimento di tempo e impegno;
Non ci sono attività ricreative significative nella sua vita;
Il Senso del Sé
Il tempo è percepito discontinuo e frammentato; non c’è consapevolezza di continuità storica del suo vissuto;
Incoerenza sui personali gusti, opinioni e preferenze;
Quando parla di sé mostra delle incoerenze, confusione e contraddizioni non è in grado di spiegare chi è;
Grave disagio quando è da solo;
Assenza di relazioni intime significative e continuative;
Tendenza ad attribuirsi valore in relazione ad altri; l’autostima è in gran misura determinata dal confronto con gli altri;
Tendenza a sentirsi superiore o migliore agli altri, o in contraddizione a sentire di valere meno degli altri;
Valore di sé masochistico;
Senso di autostima instabile, cambiamenti sul modo di vedersi;
Fragile senso di autostima influenzata e definita quasi interamente dai feedback esterni, in grado decisamente maggiore rispetto ad altre persone;
Senso dell’altro
L’altro va bene quando risponde ai propri bisogni e viene idealizzato ma non riesce a descriverlo o e contraddittorio.
Incapacità di giudicare i sentimenti degli altri a partire dalle loro azioni;
Difficoltà a valutare come gli altri la percepiscono;
Preoccupazione consistente per il timore che le opinioni degli altri su di lui/lei cambino rapidamente e imprevedibilmente;
La visione degli altri è influenzata da come queste persone sono percepite dagli altri, i feedback e le opinioni esterne sono tenuti in considerazione e hanno un forte peso nella stima e nella valutazione di sé nei confronti di persone significative;
Ha frequenti fraintendimenti sociali, errori di giudizio;
E’ superficiale, confuso contraddittorio quando parla degli altri.
In terapia il lavoro è altamente collaborativo, si contatta la sofferenza e si lavora non solo con alcune di queste dimensioni del vissuto soggettivo ma si aiuta a organizzare la propria identità in maniera più integrata e sicura. Si aiuta a differenziare il Sé da ciò che è altro, ciò permette a creare e chiarire i confini identitari – a ciò che è interno (rappresentazione di sé) e ciò che è esterno (distinto anche dai meccanismi proiettivi di sé verso l’altro).
Dopo aver lavorato molto nella relazione terapeutica, solo l’alleanza ci permette di lavorare e comprendere cosa ha contribuito a tale disorganizzazione. Un lungo lavoro di impegno da ambe le parti che porta risultati solo se si lavora nell’accordo della continuità; si comprende la discontinuità e le contraddizioni che avvengono nel qui ed ora autentico col terapeuta; ciò aiuta a riorganizzarsi in maniera più coerente e sicura con sé e con gli altri, di vedere bene il confine psichico ed emotivo che c’è tra il terapeuta e il paziente ma anche le persone che includono la vita del paziente; esplorare i meccanismi difensivi “insieme” quelli che impediscono la riorganizzazione del proprio assetto identitario più consono a sé e sicuro aiuta a far emergere gradualmente l’autenticità del senso del Sè.
Se avete questa confusione e pensate spesso di mollare la terapia probabilmente è importante parlarne in maniera aperta con il vostro terapeuta che probabilmente sta subendo la vostra svalutazione imminente che è dovuta alla vulnerabilità percettiva. Il terapeuta conosce i meccanismi difensivi che si attivano e capirà l’importanza del momento svalutativo. Infatti la svalutazione probabilmente è dovuta ad una momentanea incomprensione o proiezione di un vostro vissuto distorto sul di lui, ricordate il lavoro che state facendo con lui/ lei e non perdetelo di vista. Se cadete in quella gabbia del “nero” probabilmente sarete portati a pensare di cambiare terapeuta ma il mio consiglio nonostante la confusione che avete è “non mollare”; la confusione tra chi siete e chi è l’altro avviene anche in terapia ma si lavora per comprendere come siete organizzati. La continuità che state creando con un professionista di cui vi siete fidati sarà la base sicura per riorganizzare emotivamente voi stessi ed è fondamentale per la vostra salute mentale, per l’identità e per le relazioni che desiderate avere nella vostra vita. Abbiate fiducia, i tempi per riconoscervi in questo caso però sono lunghi, dipenderà molto anche dalla relazione di fiducia che avrete con il terapeuta che scegliete per voi _ ma parlate dei dubbi, delle confusioni e vedrete che pian piano riuscirete a riorganizzarvi con maggior fiducia e serenità.
Marialba Albisinni, psicologa, psicoterapeuta
Or.psicoanalitico
Disturbi di Personalità- Organizzazioni di Personalità Borderline
(…) tu che mi ascolti, in pena viva o in letizia (e più se in pena), apprendi da chi ha molto sofferto, molto errato, che ancora esiste la Grazia, e che il mondo _ TUTTO IL MONDO – ha bisogno di amicizia. Saba (1951).
#iorestoacasa
Nei periodi di difficoltà noi umani abbiamo bisogno di mantenere quell’ equilibrio emotivo necessario per poter affrontare la complessità delle situazioni. In questo periodo umanamente doloroso di pandemia dobbiamo essere un po’ più bravi del solito per evitare il disequilibrio psicofisiologico. Il pianto di un bambino attiva l’attenzione protettiva dei genitori e li garantisce la sopravvivenza; in questo momento delicato dovremmo essere un po’ come quei genitori, ossia metterci in ascolto con il dolore degli altri ma non per farci sopraffare dall’ansia ma per contribuire con coscienziosità alla sopravvivenza umana; se rimaniamo in casa stiamo già facendo qualcosa. Se entriamo in quest’ottica e diamo spazio all’altruismo permettiamo al nostro sistema fisiologico di attivare sostanze neurochimiche, ormoni che generano calma e che regolano gli affetti umani: ossitocina e oppioidi endogeni (insiti nel nostro corpo) verranno in nostro aiuto per calmarci. Se ascoltiamo e attiviamo il nostro sistema insito di cura e di cooperazione umana siamo agevolati in modo positivo poiché stiamo contribuendo alla sopravvivenza umana. Un grande neuroscienziato degli affetti, Panksepp sostiene che “la cura inibisce la sofferenza”, i tanti medici ed infermieri o chiunque si occupa del bene per gli altri e sta sul fronte ha risorse maggiori rispetto altre persone poco in contatto con la cura e l’altruismo. La cura per sé e per gli altri aiuta a vivere con maggior serenità ed è importante riscoprirla.
Tuttavia se siamo costretti a stare in casa evitiamo di essere passivi e impariamo ad essere agenti della nostra gestione proteggendo anche gli altri che convivono con noi. Capire le priorità del momento (proteggerci e proteggere; stare in sicurezza o aiutare; svagarci e muoverci nel nostro spazio di azione) anziché riempirci di pensieri ingombranti o azioni distruttive ci permette di selezionare e liberare la mente.
Vediamo nello specifico cos’altro ci può aiutare:
Una prima regola che ho condiviso in accordo con la mia famiglia e devo dire che sta funzionando alla grande è quella di sostenerci a vicenda. Se uno di noi è più nervoso rispetto all’altro dobbiamo prodigarci per farlo stare bene. Ho attivato in loro, nonostante siano adolescenti un sistema cooperativo, che ci sta aiutando molto. Provatelo, gli stati emotivi cambiano poiché ognuno di noi sta sperimentando cosa significa essere empatici, essere di sostegno in quel sistema cooperativo necessario per la sopravvivenza. Capisco anche quanto possa essere difficile in alcune famiglie problematiche e allora ci sono altri spunti su cui far leva ma chiamate gli esperti, i tanti numeri che girano nel web, ma accertatevi che lo siano.
Riconoscere gli stati emotivi: preoccupazione, ansia, paura, rabbia sono quelle predominanti in questo periodo di emergenza pandemica ma poi dobbiamo anche attivare altrettante emozioni e azioni costruttive speranza, cura, protezione, creatività.
Rispettiamo gli spazi con i nostri familiari; dividere i momenti privati e i momenti di condivisione. Rimandare le discussioni in momenti più favorevoli della nostra vita è utile per non creare ulteriori tensioni;
Fermatevi e respirate, se vi sentite molto agitati, regolate il ritmo respiratorio, rallentate il respiro e ascoltatelo. Noi tutti abbiamo questo gran potere:
inspirate profondamente col naso ed espirate con la bocca; fatelo ogni volta che vi sentite emotivamente irritati. Sono sicura che ne sarete capaci. Il livello di agitazione si abbassa. Tutto il vostro corpo ne gioverà.
Essere agenti pratici: scegliere il libro di vostro interesse, dipingere, ricamare, cucinare, fare corsi online, giocare con i propri figli, dedicarsi agli animali alle piante se ne avete aiuta a stimolare ricerca, vitalità e la dopamina che serve al nostro cervello per non addormentarlo;
Parlare con chi può rassicurarvi; non vergognarsi di rivolgersi ad esperti;
Favorite tecniche di meditazione, di rilassamento o mindfulness o per chi preferisce attività in movimento riscoprire il fitness, il ballo in casa. La musica poi aiuta sempre a calmarci o attivarci.
Non dimenticate mai la vostra parte più creativa qualunque essa sia poi, ci aiuta a metterci in contatto con la parte più giocosa e profonda di noi e lo fa piacevolmente; dare spazio al bambino che è in noi;
Se preferiamo usare l’immaginazione possiamo isolarci, fantasticare e concentrarci a trovare un’ immagine, un qualcosa dove rifugiarci “un posto sicuro e rassicurante” che in momenti di difficoltà o di insonnia può aiutare a calmarci;
Siamo coscienziosi e manteniamo viva la nostra identità, col “fare” ricordiamo chi siamo ma in questo delicato momento con il “restare a casa” riattiviamo non solo il nostro sistema di cura, di creatività e cooperazione ma anche valori di solidarietà e rispetto umano di cui tutti indistintamente in ogni necessità abbiamo fortemente bisogno di ritrovare.
Il lavoro con le coppie è molto particolare. Solitamente le coppie che si presentano in psicoterapia hanno una difficoltà a confrontarsi in maniera rispettosa. Il piu delle volte nascono incomprensioni a causa di vissuti emotivi non risolti con la propria famiglia di origine.
Le dinamiche inconsce dovute a ciò che si è interiorizzato nel passato influisce negativamente nella nuova progettualità relazionale innescando incomprensione e distanza emotiva.
È importante lavorare nell’ individualità per conoscere come alcune organizzazioni emotive si sono irrigidite creando incomunicabilità con l’altro e mancato contatto con se stesso.
È importante lavorare con momenti di condivisione per potersi confrontare per un benessere comune e di maggior comprensione empatica.
La sofferenza dell’ uomo è in parte determinata dalla sua mancata realizzazione personale in termini di espressione del suo essere.
Il contesto, le relazioni di base interiorizzate e quelle continuative influiscono su questa carenza di sé.
È molto importante rivendicare la propria unicità in base alla propria storia, il vissuto, i valori e le ambizioni di vita.
Se tutto ciò si vive senza consapevolezza difficilmente si attiva l’ impegno per potersi seguire. Si sfocia spesso in ciò che Heinz Kohut chiama disturdi del sé.
In tutto questo la psicoterapia di approccio psicoanalitico aiuta non solo a comprendersi ma anche a impegnarsi per realizzare la propria persona. Ognuno ha un proprio tempo per cominciare e per continuare a lavorare per la propria stabilità emotiva. Non può esserci cambiamento se non si contatta se stessi e se non si collabora per se stessi.
Probabilmente ognuno di noi si è sentito un pò folle oppure no. Poi abbiamo bisogno di sensibilità, gentilezza, empatia e speranza per uscirne fuori. Un diritto al sostegno, alla presenza dell’altro che spesso viene a mancare.
Chi sono? Tutti abbiamo più o meno bisogno di trovare una risposta in noi stessi, per raggiungere non solo il nostro grado di accettazione e sicurezza emotiva interna (coesione) ma anche il nostro orientamento alla vita. In tutto ciò siamo aiutati quando sappiamo più o meno chi siamo, rispettiamo la nostra indole e siamo capiti da coloro che ci sono vicini. Il contesto relazionale è fondamentale per la crescita psicologica.
Ma comprendere la nostra identità non è così semplice. La nostra mente è relazionale, sin dalla nascita ha bisogno dell’altro per capire e crescere, abbiamo bisogno di amore per sentirsi accettati, supporto emotivo e presenza fisica per crescere e affrontare la vita nel sociale; ma non sempre le figure di riferimento sono presenti in modo sano, tanto meno le risorse di aiuto in ambito sociale e contestuali. La sofferenza umana si autogenera in un dolore interiore senza fine.
La società istituzionale non interviene negli aiuti psicologici e chiude gli occhi dinanzi a ciò che a noi professionisti della salute mentale e a chi si occupa di psicologia e sociologia risulta invece visibile. Già in tenera età i bambini vanno protetti da relazioni malsane e i genitori aiutati nella difficile impresa della crescita psicologica dei propri figli per la tutela della loro sanità mentale.
Allora ci chiediamo, quanto è complesso il processo di crescita identitario? Come viene deragliato dalle relazioni malsane e dall’indifferenza sociale? Quanta sofferenza procura tutto ciò?
Prendo spunto dalla storia di Joker poiché è rappresentativa di un malessere esistenziale e sociale caratteristico dell’uomo di sempre, ma ancor più di oggi. Evidenzia in maniera enfatizzata una sofferenza devastante e come viene a crearsi un disturbo molto grave di personalità . Il disturbo peggiora fino ad arrivare alla psicopatia – con un tempestivo supporto poteva perlomeno fermarsi? Chi ha toccato la sua sofferenza?
Qui nella storia di Joker ci addentriamo in un vissuto particolare i cui “traumi sono cumulativi” ossia diversi e ripetuti durante tutto il processo di crescita; intorno al personaggio ci sono diversi vuoti non solo affettivi. Niente e nessuno lo aiuta a “riorganizzare in modo relazionale” e sano la sua mente e nessuno lo accompagna a fare un tentativo per trovare la sua identità. Il sociale violenta la sua mente con il rifiuto. Non c’è alcuna possibilità per lui. Ricordiamo sempre che è un film ma ci porta a riflettere su importanti sfaccettature e su come si arriva a distorcere la realtà, proiettando il dolore interno sul mondo esterno, in questo caso in maniera distruttiva.
Cominciamo dall’inizio:
Arthur, nasce da una madre patologica la quale ha una realtà distorta che il figlio interiorizza come unica realtà. Lui, non ha altre figure di riferimento con cui confrontarsi. Vive nell’inganno e nella distorsione di questa realtà. Una madre che non vede assolutamente la condizione di suo figlio ma esprime il suo “desiderio” che Arthur interiorizza nel tempo: “devi far ridere la gente” _ è l’unica direzione che all’inizio orienta la sua ambizione di vita. Lui che in qualche modo cerca di divenire il desiderio di sua madre. Un cabarettista che fa ridere la gente. Nel film vediamo un adulto malato, non si occupa di se stesso ma di lei, nutre la madre, le fa il bagno, se ne a modo cura. Del bambino che è stato sappiamo poco ma abbastanza da dedurre il suo sviluppo psico-patologico.
Arthur in realtà non sa ridere, tant’è che disegna sul volto un sorriso, rappresentativo del personaggio desiderato da sua madre. La risata inquietante che esprime è la conseguenza di una dissociazione emotiva, è il “conflitto inconscio” tra l’incongruenza della richiesta materna: “devi far ridere la gente” e la sua personale e autentica tragicità dell’esperienza “c’è poco da ridere quando sei nella tragedia della tua esistenza storica e attuale “. Ne esce un sorriso inquietante e strozzato. Al suo nascere sembra che lo faccia morire. Lui è inconsapevole di ciò.
Un personaggio quindi che sin da bambino non è mai stato a contatto con l’amore familiare, né tantomeno a contatto con la sua tragicità emotiva per integrarla al suo vissuto storico (ha rimosso gli eventi traumatici) _ soprattutto non ha avuto la possibilità di relazionarsi con menti organizzate sane e responsabili in modo più lo aiutessero a liberarsi dalle gabbie del suo doloroso vissuto. La sua realtà diviene non reale, diviene commedia; fino a giungere a ribattezzarsi in una forma identitaria che racchiude ed esprime tutto il suo dolore e la sua rabbia da cui poi prenderà il nome di Joker.
Azzardiamo il suo senso storico in base agli elementi che lui stesso ci fornisce.
Nasce senza un padre poiché lo ha abbandonato e disconosciuto. Non viene visto dai Servizi Sociali né da quelli Sanitari. E’ abbandonato tragicamente al suo destino sin da bambino. Non ha alcun tipo di supporto, è un non visto. Prima di diventare Joker fa dei tentativi di divenire e comprendere il suo senso storico. E’ consapevole che ha bisogno di aiuto. Ricerca degli indizi che li diano delle risposte su chi è sua madre, chi è suo padre e trovare qualcosa di sé, indizi per la sua identità. Ritrova i traumi, il peggio che un figlio possa scoprire, sono i maltrattamenti, gli abusi vissuti con la madre e gli abbandoni istituzionali. E’ la figura di un uomo profondamente ingannato e disconosciuto dagli affetti e profondamente ferito dalla vita, dall’indifferenza e poi dalla manipolazione della società capitalista.
Gradualmente la verità che trova, lo porta ad essere più confuso ed arrabbiato, diviene una mina vagante perché i suoi traumi si accumulano non solo nel suo presente ma anche nello svelamento di ciò che scopre essere la sua storia, gli abusi, i maltrattamenti materni… il modo in cui si rivelano hanno un impatto emotivo uraganico su di lui. Anche qui nessuno lo aiuta ad elaborare queste scoperte e la sua mente è in balia alla follia_ non ha nessun supporto per questi traumi svelati. La sua confusione si implementa tra gli inganni di una società che non tutela quel bambino maltrattato, poi non supporta quell’adulto disturbato. Nel ritorno a casa anestetizza le sue emozioni, è il bravo bambino che si occupa della madre ma è un uomo arrabbiato che si esaspera nella sua solitudine. Chi è Arthur? Tanti sensi di ingiustizia che non trovano nessuno sfogo relazionale, nessuna accoglienza, nessuna comprensione, nessun contesto supportivo. Rimane solo. I suoi tanti traumi rimangono isolati in se stesso, e nonostante il suo bisogno di condividerli e di cercare qualcuno che lo ascolti e lo aiuti viene nuovamente abbandonato dalla società, i fondi sanitari finiscono e lui non ha alcuna possibilità di recuperarsi, nemmeno con l’aiuto farmacologico. Non dimentichiamo che lui si presenta agli appuntamenti con la terapeuta assegnata, anche se non si sente capito e viene accolto in modo poco gentile da lei, lui persiste_ si sfoga senza avere alcuna sintonia con la terapeuta che lo invita a scrivere i suoi pensieri senza alcuna possibilità di sintonia con lo stato emotivo sofferto; non c’è possibilità di ricostruire e comprendere emotivamente un uomo distrutto dall’esperienza vissuta. Qui è ancora un personaggio disturbato dissociato e istrionico, al limite della psicosi ma non ha ancora una organizzazione di personalità psicopatica. Arthur spera e si aspetta di ricevere quella speciale e attenzione e comprensione dell’altro di cui ogni essere umano ha necessità, si chiama “empatia”_ ne rimane profondamente deluso. Questa è la ri-traumatizzazione dell’assenza. Una piccola speranza che era ancora viva, muore e si reitera nella rabbia.
Arthur Fleck si ribattezza in Joker il personaggio malvagio e vendicativo.
La sua identità parte quindi dal “disconoscimento di un padre” il vuoto affettivo lo ricerca a livello immaginario nell’idealizzazione in figure potenti e famose _ figure fortemente “idealizzate” affinché coprano un vuoto esistenziale. Con l’idealizzazione ricerca di interiorizzare figure forti, per un riscatto sociale e identitario. L’idealizzazione è un processo psicologico che tende a interiorizzare dentro di sè una figura che dà forza e vigore, ciò che non è stato quindi si idealizza. Aiuta a mantenere un grado di coesione con se stessi. Un’ illusione che poi ripetutamente si perde perchè c’è la delusione di ciò che avviene nella realtà, poichè appunto, idealizzato significa che non è del tutto reale. Con questi uomini non ha alcun reale legame. E’ un bisogno di forza che lo sostiene emotivamente. Ecco l’importanza della figura del padre e del bisogno di ogni figlio di avercero vicino, per rafforzarsi emotivamente e affrontare il sociale. E’ una figura che resta dentro, sia nella presenza che nell’assenza.
L’umiliazione, l’inganno e la delusione lo segnano nuovamente: “ l’inganno della madre” e il disconoscimento di un immaginario padre _ e l’umiliazione da parte di una figura che ammira e idealizza come una figura che lo guarda con occhi esclusivi e speciali. Idealizza infatti la figura di Rober De Niro; immagina di ricevere empatia e ammirazione da lui e dalle persone su cui lui esercita la sua influenza. Immagina di essere il suo pupillo ma nella realtà viene umiliato pubblicamente e ingannato anche da questo personaggio di cui successivamente si vendicherà. Dopo l’idealizzazione si ha un crollo emotivo difficile da recuperare se non si viene aiutati a capire.
Lui è sensibilizzato al disconoscimento, e all’inganno. La sua vita diviene un teatro, la sua vita è stata una commedia, tutti han recitato una parte ed è l’unica realtà che conosce. Ha vissuto in una realtà distorta e confusa.
C’è ad un certo punto una confusione su cosa è la realtà. Cosa è accaduto? Sua madre è stata ingannata da un uomo influente? Quale verità? Oppure sua madre lo ha sottoposto ad un ambiente di maltrattamenti e abusi? Di chi deve fidarsi Joker? Quanta confusione ha in testa?
Il difendersi con la violenza diviene la sua unica identità possibile perché da quell’episodio di “legittima difesa” sulla metro comincia ad essere casualmente visibile al mondo _ comincia ad esistere per la società solo quando diviene ciò che non avrebbe mai pensato di diventare. Prima crolla, anche qui da solo; poi comincia a godere del suo protagonismo ed è meno solo; diviene un eroe ammirato. Joker perpetua la sua identità nella sua onnipotenza malata.
Chi
è Joker?
Joker è un personaggio psicopatico che vive nel rifiuto di tutti, non ha mai avuto la possibilità di capire chi è _ non ha esperienze amorevoli alla base, tantomeno nel presente. E’ un uomo emarginato da chi prima di tutto poteva vedere e proteggere, è stato disconosciuto da tutti.
Un film non per tutti. C’è bisogno di un equilibrio mentale per vederlo e riflettere su come certe dinamiche della vita segnano profondamente. Lui ha traumi cumulati nel tempo, non trova via d’uscita. La sua mente è malata nella cronicità malata della società e dalla mancata presenza di affetti, dalla presenza di persone per niente gentili.
Abbiamo tutti bisogno di un ambiente più o meno sicuro che ci dia una possibilità, una famiglia più o meno amorevole per crescere se non felici sereni. Ma se l’ amore e il rispetto non lo troviamo in famiglia è bene ricercarlo nelle relazioni, quella che oggi con l’abuso dei social stiamo perdendo. “La nostra mente si forma in relazione con altre menti”. Il contesto educativo, sociale e supportivo esterno alla famiglia resta importante per compensare le mancanze.
Approfondimeto clinico:
Un sano sviluppo evolutivo e
l’identità più autentica tesa verso
l’integrazione dipende dai rifornimenti emotivi e le cure materne (ma non solo)
che permettono al bambino di iniziare la sua vita esistendo, non reagendo ai
cosiddetti urti considerati invece come i non adattamenti materni al bambino.
Solo in questo modo le persone vivono creativamente e sentono che la vita
merita di essere vissuta (Winnicott
1971).
La teoria della mente di riferimento è la psicoanalisi relazionale che considera l’eterogeneità delle teorie psicoanalitiche e le integra in termini di complementarietà. Ogni teoria psicoanalitica serve a darci contributi significativi e importanti per comprendere la psiche umana, come strutturiamo la nostra identità e sul come lavorare in ambito terapeutico.
La psicoanalisi relazionale parte dal presupposto che la mente è fondamentalmente diadica e interattiva “la mente è relazionale”; ciò significa che tutti noi ci organizziamo emotivamente e strutturiamo la nostra personalità in base alle relazioni con gli altri _ in primis con le figure di riferimento. La mente ricerca contatto, il rapporto con altre menti. C’è sempre una inclinazione temperamentale ma l’esperienza relazionale con gli altri ci permette di organizzarci in maniera più o meno sana o malsana. Il modo in cui ci percepiamo, creiamo legami affettivi e relazionali, esploriamo il mondo in buona parte dipende dal nostro bagaglio affettivo ed esperienziale.
I traumi se sono cumulativi ossia ripetuti (Masud Khan) e relazionali mettono a dura prova la sanità mentale di ogni psiche umana.
Il protagonista “Arthur” ha una personalità disturbata altamente dissociata, confusa, disorganizzata con sé e con gli altri. Il disconoscimento, la malattia materna, gli abusi e i maltrattamenti, l’essere bullizzato, l’essere umiliato, e il non avere alcun tipo di riferimento lo portano al delirio completo di sé. Lo “stile di attaccamento” come direbbe John Bowlby è disorganizzato e invaso dalla paura. Il contatto col mondo fa paura. Il disorientamento materno diviene il suo. E’ un personaggio rifiutato.
L’unica mente con cui si è relazionato infatti è quella materna _ ma da cui ne esce confuso e deluso. La patologia psicotica della madre che è fuori dalla realtà lo disorienta e l’organizza in maniera malsana. E’ una personalità completamente dissociata dal suo vissuto storico, quindi non sa chi sia anche se va ostinatamente alla ricerca. Si ritrova ad essere un personaggio dal sorriso forzato. Interiorizza la realtà distorta e il desiderio materno.
Come ci ricorda Daniel Stern vari sensi del sé hanno necessità di sperimentarsi per la formazione della nostra identità. Tutto ciò è stato assente nel personaggio che stiamo trattando.
Il senso di essere soggetti agenti, senza di esso possono aversi paralisi, la sensazione di non essere padroni delle proprie azioni, l’esperienza della perdita di controllo degli agenti esterni.
Il senso di coesione fisica, senza di esso possono aversi esperienze di frammentazione corporea, spersonalizzazione, esperienze extracorporee, derealizzazioni.
Il Senso di continuità,senza di esso possono aversi dissociazione temporale, stati di fuga, amnesie, la perdita della sensazione di continuità dell’esistenza.
Il senso dell’affettività, senza di esso vi è può essere anedonia e stati dissociativi.
Il senso di un sé soggettivopermette di stabilire rapporti intersoggettivi con gli altri, la mancanza di esso porta ad una solitudine cosmica o all’altro estremo trasparenza psichica.
Il senso di essere produttore di organizzazione, senza il quale vi può essere caos psichico.
Il senso di poter comunicare significati, la sua mancanza può portare ad una esclusione culturale, scarsa socializzazione, e mancata validazione delle conoscenze personali.
I differenti sensi del sé in realtà maturano e cambiano e Stern riflette sulla possibilità di come avvenga tale cambiamento e si chiede se ciò è dovuto ad una maturità del bambino e della sua esperienza o ciò è dovuto alla nuova attribuzione che il genitore fa di lui. Per esempio il sorriso del bambino avviene per maturità o perché viene stimolato dal clima emotivo delle persone che lo circondano. Nel cambiamento nella nuova capacità anche gli adulti interagiscono diversamente; tale paradosso si risolve con l’affermazione che i due sensi del sé cambiano in interazione l’uno con l’altro. Il clima emotivo di lui è tragico il “desiderio interiorizzato della madre”: <<sorridi per far ridere le persone >> senza che ci sia alcun clima emotivo favorevole alla sua crescita lo disorienta. Lui subisce molteplici traumi mai elaborati e accolti. Nessuno lo aiuta.
Il tentativo di contatto con la terapeuta (cognitivista comportamentale) non lo connette nè con le sue emozioni, né col suo senso storico e lo imprigiona in quelli che sono i pensieri negativi. Lui cerca empatia, supporto e accettazione ma soprattutto un aiuto per non soffrire così dolorosamente; fa uso e abuso di psicofarmaci ma ha necessità di essere ascoltato. La sua mente è completamente disorientata e disorganizzata dall’incomprensione totale col mondo. E’ già un uomo molto malato. Il lavoro di equipe non esiste.
Anche “dal punto di vista neurobiologico il terapeuta sintonizzato ha quindi un’opportunità per agire come regolativo affettivo interattivo degli stati privi di regolazione del paziente” (Schore, 2002). “Il terapeuta che vuole comprendere cosa è successo al bambino il cui sé adulto è venuto in trattamento, diventa il testimone che rende possibile all’adulto di fare esperienza di tutto l’orrore della sua storia e quindi di cominciare a guarire. Quella che chiamiamo diniego o dimensione inconscia, può essere un’esperienza di cui non si è mai fatta veramente esperienza. I fenomeni dissociativi sono il risultato dell’assenza di un testimone convalidante in momenti cruciali della storia della persona”. (Orange, Stolorow e Atwood, 1992). Nel film il terapeuta è del tutto assente come figura responsiva ed empatica. Anche qui nella sua speranza e nel suo bisogno di supporto per la sua mente il protagonista trova il vuoto dell’altro. “In un setting analitico appropriato vi è la possibilità per i domini dissociati del sé di sviluppare, insieme all’analista, quegli aspetti dell’esperienza non simbolizzata che consentiranno agli elementi motori, affettivi, immaginativi e verbali di fondersi con una memoria narrativa pertinente nel contesto di un qualche cosa prima inconcepibile”. (Bromberg, 1998).
“Niente può creare un legame più
del prolungato tentativo di trovare insieme il senso della vita emotiva di
qualcuno” (Orange, 1995) ma lui era solo.
Le figure interiorizzate sono di disconoscimento (padre) e ingannevoli e patologiche (madre). Il padre e’ una figura che lo disconosce totalmente, visto che non sa chi sia_ dentro di sé porta questa profonda ferita di vuoto, abbandono e rifiuto mai riparata o compensata con nessun altra relazione. Vive infatti una condizione esistenziale di emarginato, di invisibile. Quel vuoto lo induce a fantasticare la possibilità di piacere ed essere accettato da due uomini forti, influenti e conosciuti a livello sociale. Uno è l’ipotetico padre, uomo politico; l’altro da cui vorrebbe essere accettato è il personaggio che ricopre Robert De Niro. Non solo si identifica con lui ma fantastica di essere accettato da lui come un cabarettista speciale, una persona che idealizza nella possibilità di ricevere empatia per la sua storia ma anche amore. L’idealizzazione di una persona fornisce forza e contenimento in un momento difficile ma altrettanto si frammenta dinanzi alla disillusione e delusione che anch’essa può ferire. Se ti ferisce la persona che si è idealizzata si crolla, perché la forza che traeva dall’idealizzazione viene a perdersi poichè reggeva la speranza, la possibilità di una riparazione profondamente affettiva ma soprattutto la sua coesione interna. La realtà è che proprio colui che aveva idealizzato nel suo intimo immaginario, come una persona altamente empatica ed accettante di sé lo umilia pubblicamente, ne rimane doppiamente ferito (ri-traumatizzato) fino a vendicarsi di lui, pur non avendo alcun reale legame affettivo. Questo ci spiega come alcune ferite si organizzano intorno a distorsioni e fantasie di possibili riparazioni anche se non c’è alcun legame reale. “L’organizzazione psichica del bambino tenta di affrontare le situazioni irregolari costruendo nuovi sistemi di perfezione. tra cui l’idealizzazione”, (Heinz Kohut, 1978).
La
madre è una figura patologica, e sembra che sia lui a prendersene cura. Mancano
tanti dati. Non si capisce cosa sia
avvenuto veramente durante la sua infanzia ma la gravità della sua patologia ci fa pensare che la sua disorganizzazione
psichica sia stata dovuto ad ulteriori traumi come l’abuso e il maltrattamento durante la sua
infanzia. La confusione è quanto sia stato reale tutto ciò è quanto sia stato
manipolato da persone influenti, ossia l’ipotetico personaggio del padre che fa
internare sua madre e falsa le carte per salvarsi la faccia. Questo rimane
confuso, come confusa e disorganizzata rimane la sua mente e la sua identità.
Il “desiderio della madre”: <<sorridi per far ridere le persone>> ; il desiderio di lei diviene la sua ambizione. Qui siamo all’interno di una cornice narcisistica materna di cui Heinz Kohut si occupa per tutta la sua vita. Una madre con patologia narcisistica di personalità non è capace di empatizzare e rispecchiare il bisogno del proprio figlio ma lo fa agire secondo i suoi bisogni. Una componente narcisistica dei genitori moderni che è sotto gli occhi di tutti. Non c’è alcuna possibilità per lui di trovare la sua reale ambizione, la sua reale identità. Forse sarebbe stato un bravo ballerino! Ballando autoregola la sua colpa. Lui si appoggia al desiderio della madre , si espone ma le persone ridono di lui, della sua goffaggine e della sua stranezza. La risata spontanea nei momenti di tensione denota probabilmente la sua dissociazione emotiva: <<vivo nella tragicità e devo pure sorridere per far ridere>>. Che assurdità! Quando non si è consapevoli delle proprie emozioni e di alcuni vissuti che sono nella memoria emotiva il corpo parla. La risata strozzata al suo nascere è simbolo della sua tragicità esistenziale.
“ Il rischio di una ritraumatizzazione conduce alla dissociazione patologica e al fallimento della simbolizzazione o all’impoverimento della capacità di rappresentare cognitivamente esperienze affettivamente intense o complesse”(Bromberg, 1998).
Si ribattezza “Joker” e comincia ad ostentare il desiderio di un riconoscimento sociale ormai malsano reiterato dalla malattia. “L’individuo offesonarcisisticamente, non può trovare pace finché non ha cancellato un nemico, percepito indistintamente, che ha osato opporsi a lui, essere in disaccordo con lui, oppure lo ha messo in ombra” (Kohut, 1978).
La rabbia si verifica in molte forme: tutte presentano, tuttavia un aspetto psicologico specifico che dà loro una posizione definita entro l’ampia area dell’aggressività umana. Il bisogno di vendicarsi, di raddrizzare un torto, di annullare un danno con qualsiasi mezzo, e un’implacabile coazione, profondamente ancorata, a proseguire tutti questi fini, che non dà riposo a coloro che hanno sofferto di una ferita narcisistica, sono le caratteristiche della rabbia narcisistica i tutte le sue forme, che la distinguono d altre specie di aggressività, (Kohut, 1972).Qui siamo nell’ambito della patologia narcisistica maligna.
Interrogarsi sul momento negativo permette il risveglio. ( J.Benjamin, 1998), ma c’è bisogno di tante menti e di un sistema solido che lo aiuti a riorganizzarsi. Joker si risveglia onnipotente circondato da altrettante menti arrabbiate e deluse dalla società.
“La dissociazione è una funzione normale e adattiva della mente che esclude dal campo della coscienza stati di sofferenza intollerabili, legate a realtà esterne ed interne; è un meccanismo che mette al riparo la coscienza ordinaria dall’inondazione di stimoli dolorosi, come quelli di origine traumatica. In qualche modo ci si costruisce una realtà parallela più favorevole dove trovare rifugio. Questo ritiro temporaneo o rifugio non è patologico ma può essere messo al servizio dell’io (per la creatività, delle relazioni e dell’energia personale). Se però tende alla reiterazione eccessiva e alla dipendenza morbosa si rischia la coazione all’isolamento, alla distorsione del senso del sé e delle relazioni fino alla perdita del contatto vitale con la realtà sfociando in disturbi psichiatrici” (Bromberg, 1998).
Nel delicato lavoro terapeutico “L’esibizionismo
arcaico e la grandiosità devono essere
trasformati gradualmente in autostima inibita nella meta e in ambizioni
realistiche, il suo desiderio di fusione con l’oggetto-sé arcaico onnipotente
deve essere sostituito da atteggiamenti che sono sotto il controllo dell’io
come per esempio l’entusiasmo per ideali significativi e della sua devozione ad essi”(Kohut,
1978).
Ma Arthur era stato lasciato da solo sin da bambino. La sua mente si era ammalata molto precocemente fino a sfociare in un esibizionismo arcaico e pericoloso del suo essere senza nessuno e di divenire Joker, il malevole personaggio che si autosostiene nella sua stessa malata onnipotenza che si autoperpetua.
La società ha bisogno degli psicologi. La patologia narcisistica, la istrionica e la dissociata e l’antisociale_ tutte organizzazioni di personalità particolari, sono oramai sono sotto gli occhi di tutti proprio perché invisibili sotto altri punti di vista. Quanta prevenzione si potrebbe fare se ci fosse la responsabilità e buon senso di essere tutelati se non nell’amore in quella dignità umana per cui bisogna lottare in maniera saggia proteggendo da umiliazioni e traumi i bambini già in tenera età. Ma anche noi professionisti siamo impotenti, stanchi e soli dinanzi a tanta pazzia “istituzionale”. Si conosce molto di come ci sviluppiamo e la prevenzione psicologica aiuterebbe a tutelare le identità e facilitarne la crescita. Ci si ammala quando si è troppo deragliati dai propri bisogni e dall’empatia verso l’altro.
Questo è un film che permette di calarti empaticamente in un personaggio patologico e di vederne le mille sfaccettature che provocano tanti traumi ma ricordatevi di “differenziarvi” per non cadere nella trappola della sua mente, ricordandovi di riconoscere la vostra perchè Joker rimane un personaggio drammatico e per fortuna di fantasia. La sofferenza umana diverrà mai veramente visibile per essere affrontata?
Diventiamo ridicoli solo quando vogliamo apparire ciò che non siamo.”Giacomo Leopardi
Pablo Picasso, Buste de Femme au Chapeau, 1962. Museum Boijmans Van Beuningen
L’essere umano si è sempre occupato del problema tra il rapporto di
ciò che è percepito oggettivamente (cosi com’è per esempio un oggetto
nella sua configurazione) e ciò che è concepito soggettivamente (così come organizziamo la nostra personale esperienza secondo le nostre personali sensazioni). Tale complesso quesito è stato sollevato da D. Winnicott, noto psicoanalista.
Nella mia esperienza clinica ritrovo spesso persone tormentate dalla confusione di ciò che è sentito reale ed autentico e da ciò che invece è vissuto come non reale, quasi non appartenente a sè “un enorme groviglio per la propria esistenza, perchè a volte la sensazione è di non vivere la propria vita”. Si è confusi nel riconoscere i bisogni ma anche i desideri, le ambizioni che autenticamente appartengono a sè, quindi l’identità non si sviluppa in maniera fluida e naturale.
La comprovata ricerca sul campo evolutivo, ci indica, come sia importante per la crescita dell’uomo, l’aspetto affettivo ed empatico di come il senso reale del sé di un bambino si sviluppi grazie ad un adulto maturo capace di buona sintonizzazione ai bisogni dei piccoli, ma ciò che conta è la sufficiente risposta che viene data e convalida degli stessi stati emotivi. Sarà in questo caso, successivamente, un adulto, capace di stare in pieno contatto con se stesso e con la propria soggettività, con il proprio senso autentico della sua esperienza che si evolve nella sana direzione in termini di continuità e coerenza con sè e gli altri.
La motivazione che spinge l’uomo a fare scelte e che orienta pensieri e azioni dipende in larga misura dall’esperienza vissuta e dagli scambi affettivi ed empatici ricevuti.
E’ un’area di base, “l’affettività o l’anaffettività” collegata alla possibilità di ricevere empatia o meno da chi ci circonda, che orienta la nostra esperienza di vita in termini di sentirsi o meno esistenti nel proprio modo o adattati al modo dell’altro. Il senso reale in termini soggettivi è riferito quindi alla sensazione, alla percezione di ciò che sentiamo nella nostra esperienza di vita, e la capacità di saperli esprimere spontaneamente. In fase precoce la presenza di un adulto che supporta e contribuisce al processo di crescita, facilita lo sviluppo in linea col personale disegno di vita in continua conoscenza, in coerenza con lo sviluppo delle inclinazioni personali che lo aiuteranno a sviluppare la sua identità in maniera sana e autentica .
Il contatto, il modo in cui una madre per esempio tiene in braccio
il proprio bambino, lo sguardo, il ritmo e l’intonazione della voce
forniscono degli indicatori di scambio affettivo importanti per il
bambino, poi adulto. E’ importante decifrare bene (usando l’empatia e la
conoscenza del proprio figlio) dare il giusto nome agli stati emotivi
del piccolo, e rispondere alle sue richieste “regolandolo” ; ciò aiuta a
definire la sua soggettività. Ma se la risposta al bisogno dato
dall’adulto non coincide con lo stato emotivo che lui prova, oppure i
suoi bisogni sono del tutto ignorati ed assenti, è facile crescere più confusi che mai
sul chi siamo, cho vogliamo diventare. Ciò genera la ricerca di
conferme continue, di dipendenza a scelte di relazioni disfunzionali
che spesso invece confermano il proprio “non essere”. Si è disorientati
nel giudizio che l’altro fornisce e nella ricerca paradossale che
l’altro può attribuire “si diventa ciò che l’altro si aspetta”.
La mancata difficoltà dell’adulto di riconoscere la sua stessa difficoltà a comprendere il bambino ed a rispondere empaticamente, tende ad essere, quindi un fattore di rischio per un possibile deragliamento dello sviluppo soggettivo del bambino, in quanto ostacolo per lo sviluppo autentico del Sé e per la propria unicità identitaria. Spesso ci si adatta alla soggettività dell’altro pur di mantenere il legame pseudo-affettivo, si presenta una sintomatologia e si rinuncia al personale sentito. La propria soggettività rischia di rimanere estranea a se stessa.
Questo processo avviene in modo inconsapevole, non voluto da nessuno,
nessuno ha colpa e la situazione non cambia fino a che qualcuno, spesso
l’adulto genitore, spesso il bambino diventato adulto non si mette in
discussione e apre possibilità esplorative di conoscenza soggettiva e
scioglie modelli di relazione irretiti e ripetitivi, conformi più alle
aspettative altrui che al proprio contatto con se stessi.
Sottolineo ancora, come spesso l’adulto accudente, inconsapevolmente
sostituisce il gesto del bambino secondo il proprio bisogno. Kohut,
direbbe che ci troviamo dinanzi ad un adulto narcisistico, incapace di
empatizzare con il proprio figlio ma impone inconsapevolmente i propri
bisogni all’altro, spesso inappagati e frustrati. La conseguenza porta
il piccolo a non avere possibilità di comprendere i suoi stati emotivi
ed i suoi bisogni vengono disconosciuti; impara ad adattarsi senza
possibilità di scelta, senza possibilità di verbalizzare ed esprimere,
senza possibilità di consolidare i suoi stati e la sua soggettività non
si sviluppa in modo strutturata e fluida. Da adulto si rende conto che
non sa chi sia. Non sa stare in contatto emotivo con sè.
Tristemente, infatti Il risultato della confusione sopracitata,
ricade sulla sensazione che alcune persone hanno di “non esistenza”.
Winnicott, pediatra e noto psicoanalista individua tale risultato nel “falso sé”,
un sé custode che in qualche modo protegge, preserva il vero sé, lo
nasconde per qualche motivo specifico, esso è ciò che si presenta al
mondo esterno. Si diviene, a volte, ciò che l’altro desidera ed a parlare è la sintomatologia.
“L ‘integrazione dell’esperienza reale, tuttavia, non è mai completato e nessun essere umano è libero dalla tensione di mettere in rapporto la realtà interna con la realtà esterna
e che il sollievo da questa tensione è provveduto spesso da un’area
intermedia di esperienza, indiscutibile, per cui si libera la personale
creatività come può essere un arte, un particolare lavoro, la scrittura…
“E’ questa un’area di gioco necessaria, in cui apparentemente ci si
perde ma si riconquista la propria autenticità”. La complessità di
tutto ciò è spiegato in modo semplicistico ed è riduttivo in tale
contesto.Essere empatici e rispondere alle esigenze del bambino non
significa mancare di disciplina ma facilitare lo sviluppo di ciò che si è attraverso l’empatia e il do contatto emotivo con colui che sta crescendo.
La terapia serve anche a trovare altre modalità di sviluppo in cui
affettività e soggettività vanno a braccetto, non sono necessariamente
rinunciatarie l’una dell’altra ma fanno parte di un’integrazione, ma ciò
implica riconoscimento e consapevolezza. Tale processo di sviluppo ha
bisogno del giusto tempo per avviarsi e prendere la forma più consona a
sé, per incontrare se stessi, attraverso un percorso di contatto
emotivo, di conoscenza e sblocco verso la propia realizzazione della
propria unicità come persone. Autore: Marialba Albisinni
Tu puoi scrivere di me nella storia, con le tue bugie amare e contorte.
Puoi calpestarmi nella sporcizia ma io, come la polvere, mi solleverò.
La mia sfacciataggine ti irrita?
Perché sei assediato dalla malinconia?
Perché io cammino come se avessi pozzi di petrolio che sgorgano nel mio salotto.
Proprio come le lune e i soli, con la certezza delle maree,
proprio come la speranza che alta si slancia, ancora io mi solleverò.
Volevi vedermi spezzata?
Con la testa china e gli occhi bassi?
Le spalle cadenti come lacrime.
Indebolita dal mio pianto, che viene dall’anima.
La mia superbia ti offende? Non prenderla così male.
Perché io rido come se avessi miniere d’oro scavate nel mio cortile.
Puoi spararmi con le tue parole. Puoi ferirmi con i tuoi occhi.
Puoi uccidermi con il tuo odio, ma io, come l’aria, mi solleverò.
È la mia sensualità a disturbarti?
Ti arriva come una sorpresa,
il fatto ch’io danzi come se avessi diamanti all’incrocio delle mie cosce?
Fuori dalle capanne della vergogna della storia, mi sollevo.
Su, da un passato che ha le radici nel dolore, mi sollevo.
Sono un oceano nero, ampio, che balza,
zampillando e gonfiandomi, genero nella marea.
Lasciando alle spalle notti di terrore e paura, mi sollevo.
In un’alba che è meravigliosamente chiara, mi sollevo.
Portando i doni che i miei antenati mi diedero,
io sono il sogno e la speranza dello schiavo.
Mi sollevo.
Mi sollevo.
Mi sollevo.
Maya Angelou (poetessa afro-americana)
DEDICATA A TUTTE QUELLE DONNE CHE CE L’HANNO FATTA NONOSTANTE “L’ INDIFFERENZA” E A TUTTE QUELLE “DONNE CHE DEVONO AFFRONTARE IL CORAGGIO DI FARE QUALCOSA DI DIVERSO DA CIO’ CHE LE IMPRIGIONA”
I CARNEFICI SPESSO SONO TROPPO PROTETTI DA CHI NON VUOL VEDERE… PURTROPPO
soltanto in questo modo possiamo entrare nel dialogo giocoso,
che amplia e approfondisce la nostra comprensione”. Robert Stolorow- Prospettiva Intersoggettiva
L’enorme mole di studi sulla psicoanalisi integra gli studi contemporanei sulle dinamiche inconsce. La Psicoanalisi Intersoggettiva è un approccio psicoanalitico prospettivista orientato a comprendere a pieno la prospettiva soggettiva dell’altro, il suo modo di percepire, di organizzare e costruire la realtà sia in termini fenomenologici sia in termini più profondi e inconsci tipico e caratteristico e imprescindibile degli studi psicoanalitici.
La mente non è isolata nella sua entità ma funziona sempre in un campo intersoggettivo esperienziale. Mette a fuoco Il mondo dell’esperienza interna dell’individuo accanto ad altri in un flusso continuo di influenza reciproca. Intersoggettivo perché qualsiasi campo psicologico è formato da mondi soggettivi esperienziali interagenti, ognuno ad un livello evolutivo diverso che caratterizza l’organizzazione personale e differente. L’ampliamento della capacità riflessiva aiuta a comprendere il modo in cui si è organizzati, la parti di sé che ostacolano o facilitano i processi evolutivi di crescita.
L’esperienza umana nei suoi aspetti più profondi è uno dei punti essenziali della terapia poichè la profonda immersione nel mondo del paziente aiuta la persona a trovare nuovi significati.
L’esperienza, l’inconscio, il trauma, le fantasie, la psicosomatica, i conflitti, le difese, la formazione della propria identità, vengono sempre viste all’interno del campo intersoggettivo, all’interno della relazione di un osservazione traslativa e relazionale oltre che narrativa.
Essendo la psicoanalisi intersoggettiva una psicologia del profondo è orientata all’esplorazione delle dinamiche inconsce, ossia le dinamiche che agiscono sulla nostra personalità e nel nostro comportamento ma di cui non ne siamo consapevoli. Lo studio sull’inconscio integra l’inconscio Freudiano (inconscio dinamico) ed amplia ulteriori studi e osservazioni clniche in questo campo. Semplifico di seguito i tre tipi di inconscio considerati oggi nel lavoro psicoanalitico contemporaneo ed elaborati da Robert Stolorow e George Atwood, noti psicoanalisti e ricercatori di orientamento intersoggettivo:
Inconscio pre-riflessivo riguarda queiprincipi invarianti inconsci organizzatori (P.O.I) dell’esperienza che operano al di fuori della consapevolezza. Questi principi organizzatori innescati nella nostra psiche possono agire sia positivamente facilitando i nostri processi di crescita, sia negativamente impedendo a certe configurazioni di svilupparsi. Capire cosa ostacola a livello più profondo aiuta a comprendere come siamo strutturati ampliando la possibilità di fare esperienza di modi alternativi che sbloccano e orientano la crescita psicologica.
Inconscio dinamico è riferito a quella parte della nostra psiche in conflitto strutturata da quelle esperienze a cui è stata negata espressione perché mettevano in pericolo legami indispensabili. Questo conflitto diviene una minaccia sia per l’organizzazione psicologica acquisita sia per salvaguardare legami importanti. Si rinuncia a parti di sé importanti per salvaguardare legami affettivi provocando dei deragliamenti nello sviluppo di crescita.
Inconscio non convalidato riguarda le esperienze di sé che non sono state espresse perché non hanno mai suscitato la necessaria risposta di convalida da parte dell’ambiente, per cui sono rimaste nascoste. La risposta di convalida è riferita alla possibilità di sentirsi validate le proprie percezioni che spesso rimangono poche definite e che rischiano di compromettere la la propria identità, chi si è e chi si vuole essere.
In un setting di psicoterapia psicoanalitica che abbraccia il lavoro dei tanti lavori clinici e scientifici l’attivazione esplorativa con la persona che richiede un percorso personale è tesa soprattutto ad approfondire le dinamiche inconscie che mirano verso una profonda comprensione di se stessi, ciò che ostacola ma anche ciò che facilita la crescita per avviare verso una maggior conoscenza e padronanza di Sè.
Marialba Albisinni
Bibliografia- I contesti dell’essere – Robert Stolorow e George Atwood- Boringhieri
Volti nelle nuvole- Stolorow e George Atwood- Borla
Quando sentiamo e ascoltiamo le nostre emozioni siamo a contatto con la nostra realtà sensitiva, con la parte più introspettiva, sentiamo che siamo vivi… ma a volte non vorremmo sentire c’è troppo dolore e allora si prosegue con una vita infelice, così rabbia, frustrazione, delusione, ma purtroppo anche gioia, godimento divengono un diniego a cui non c’è via di uscita.
Si preferisce non sentire ma l’emozione non scompare si incanala in un organo, per esempio lo stomaco, la testa, la schiena etc. il nodo in gola, oppure si nasconde in un comparto psichico e si dissocia dalla consapevolezza e si esprime in maniera disfunzionale comunque.
In terapia il lavoro è delicato, qual è il conflitto o il drammainconscio da cui la persona non riesce ad uscire o non riesce ad affrontare con consapevolezza? C’è ansia, uno stato emotivo che stringe la gola, accelera il battito cardiaco, sembra barcollare nel nulla, il senso di vertigine è in agguato. I sintomi psicosomatici prendono il sopravvento, parlano al posto della meritata ma negata consapevolezza.
La rabbia che si protrae per anni verso un coniuge scarsamente empatico si traduce in rassegnazione e ansia, ostacolo alla propria serenità. La paura di affrontare dei cambiamenti si traduce in ansia anticipatoria o in corazze corporee. La delusione verso un rapporto importante si può tradurre nell’ambivalenza di desiderare una nuova relazione ma anche nella paura di perdere quella che si ha. Il senso di vergogna in seguito ad un umiliazione ostacola la possibilità di essere più assertivo e confrontativo verso gli altri e verso il proprio progetto di vita, il senso di colpa si protrae nella dipendenza dalla propria famiglia di origine o un rapporto di coppia fermo nella ripetitività di schemi irrigiditi. Sono solo alcuni esempi.
La consapevolezza emotiva aiuta a orientare verso una strada più veritiera per noi e più autentica, i meccanismi difensivi a volte sono sbagliati e la rigidità psichica aumenta senza dare possibilità di aprire quella finestra che ci apre verso un sé più sano, una strada più nitida e aerosa da percorrere, il tragitto di viversi la vita con più emozioni e meno patologia. Più emozioni riconosciute e meno ansia generalizzata. Ciò è possibile se siamo in contatto con noi stessi, non in base a prescrizioni universali date come coach del saper tutto cosa afre di voi ma in base all’ascolto che possiamo avere verso noi stessi, questo è parte del delicato lavoro terapeutico. Scegliete il terapeuta con cui credete di poter creare un’affidabile alleanza cooperativa.
Questo è il lavoro continuativo che si fa in terapia quando ci si affida al professionista che considera una persona pensante e capace di viversi la vita in base alla sua scala di valori e alla coerenza con se stessa, ecco perchè a volte nello scoprire tutto ciò c’è bisogno di affidarsi nelle mani dell’esperto che si è formato per dare privilegio a chi ancora non se lo dà. Le emozioni non solo colorano la nostra vita ma la orientano in maniera più autentica.
di Marialba Albisinni – La psicologia per la gente
Il nostro lavoro di psicologi e psicoterapeuti porta ad aprirci alla conoscenza altrui, alle richieste che provengono dalle persone che richiedono un aiuto psicologico, ciò significa che tante persone si rivolgono a noi laddove c’è un disagio doloroso o in qualche modo invalidante sulla persona, spesso una fase critica e una difficoltà nelle relazioni interpersonali.
In questi ultimi anni c’è stata una forte richiesta psicoterapica, le persone sono più informate, probabilmente grazie all’accesso virtuale e grazie al lavoro di rete con altri professionisti, o la rincorsa inconsapevole verso una vita fittizia di ipotetici e inutili trofei esibizionistici che si rivelano distonici con la vera e personale realtà psichica sconosciuta porta le persone a sentire la necessità di chiarirsi e conoscersi meglio.
In primis sta cambiando la cultura sull’importanza di affidarsi ad un professionista del settore e sono aumentati i canali di invio: il medico di base che ascoltando i disagi dei propri pazienti rappresenta un canale importante; le persone che traggono beneficio dalla terapia e che diffondono la loro esperienza privata, l’effetto domino sull’effetto del benessere psichico finalmente sta avvenendo con maggior consapevolezza.
Il medico ha la possibilità di osservare direttamente i miglioramenti dei propri pazienti, l’evolvere verso dei benefici esistenziali e psico-fisici rafforzano l’idea che la figura dello psicologo e dello psicoterapeuta in molti casi è davvero necessaria e a lungo andare proficua per la crescita realizzativa e per il superamento del disagio in corso.
COSA SPINGE LE PERSONE A RIVOLGERSI ALLO PSICOLOGO?
Dall’adolescenza fino all’età più matura, i disagi che spingono le persone a rivolgersi a noi sono le difficoltà relazionali, le relazioni di coppia, le disregolazioni emotive (tra cui ansie varie o alessitimie dormienti), le crisi, le dipendenze relazionali e le difficoltà per alcune personalità di costruire legami importanti o autorealizzarsi secondo i propri bisogni più autentici. La sintomatologia che si manifesta si traduce in disagio e in realtà nasconde spesso radicate questioni irrisolte o vissuti odierni poco consoni alla propria vita idealizzata; qui la psicoanalisi relazionale lavora su più fronti considerando la persona nella sua globalità in cui l’ascolto empatico è una base prioritaria sia di un modo di essere terapeutico sia prettamente e terapeuticamente responsivo verso la persona.
ATTENZIONE! I DISAGI SI CRONOCIZZANO ED E’ DIFFICILE TROVARE UNA VIA DI USCITA
Purtroppo c’è una grande richiesta quando i problemi si sono più o meno cronicizzati e una scarsa capacità del genitore o dell’adulto poco consapevole e responsivo di individuare precocemente problematiche inerenti al proprio vissuto emotivo ed esperienziale poco elaborato che spessoe influisca sulla vita dei figli e sull’aspettativa irreale di chi vorrebbero che diventassero. Quindi i ragazzi divenuti più o meno adulti, verso i 20 anni circa sentono la necessità in maniera autonoma di richiedere un intervento di conoscenza e di facilitazione per la loro crescita perché sentono un disagio troppo ostacolante per i loro progetti realizzativi. E’ uno dei motivi di ostacolo alla crescita sana.
Il campo infantile è il più bisognoso eppure il meno toccato in terapia, ma parlo della mia esperienza, eppure nasco come educatrice. Ipotizzo che l’adulto, inconsapevolmente si pone poco il problema di come gestire in maniera più supportiva il rapporto e la crescita emotiva e psichica dei figli oppure ci sono palesemente dei rapporti di coppia coniugali disfunzionali e fermi che si riversano sulla psiche della prole in maniera sempre inconsapevole provocando ulteriori disagi.
E’ doveroso ricordare che le dinamiche relazionali ed emotive dei primi anni di vita, sono invece fondamentali affinché lo sviluppo psichico ed emotivo della persona abbia una base affettiva e sufficientemente avviata per stimolare la naturale esplorazione dell’individuo in maniera più o meno sicur. E’ nel preverbale che già si stabiliscono i cosiddetti legami di attaccamento di base che influiranno sulla futura personalità più o meno sicura o ansiosa o del tutto disorganizzata, la presenza emotiva di un adulto capace di sintonizzarsi emotivamente col piccolo facilita la crescita sana e un rapporto base di fiducia che avrà un significato inestimabile per tutta la vita dell’individuo in sviluppo.
LE RICHIESTE PIU’ DIFFUSE RIGUARDANO:
Gli adolescenti
La fascia di età molto presente riguarda gli adolescenti e i giovani adulti che hanno subito umiliazioni e vivono la loro vita con un senso di chiusura e vergogna, quindi hanno una gran difficoltà a realizzarsi e sviluppare serenamente la loro identità, a strutturare l’ autostima in maniera più o meno equilibrata.
Questo è un campo delicatissimo e come ci spiegano le ricerche cliniche, l’esordio delle malattie gravi con rischio di psicosi avvengono in età molto precoce e all’incirca verso i 17, 18 anni compaiono i primi sintomi di chiusura o come mi capita spesso di vedere la frequenza maggiore riguarda ansia e sintomi paranoici. E’ importante intervenire tempestivamente, sostenere la loro crescita, affrontare le difficoltà e i disagi psichici probabili legati alle possibili frammentazioni dissociative che disorientano quella formazione identitaria che fa aftica ad avviarsi. Il rischio di sviluppare patologia molto gravi e senza via di uscita è in agguato.
Questa è un’area di noi psicoterapeuti ad orientamento psicodinamico molto cara e sicuramente su cui si lavora in maniera preventiva, coinvolgendo se necessario i genitori nel lavoro psicoterapico.
I giovani e gli adulti
Questa è la fascia più popolata in terapia, per lo meno nel mio studio. I disagi più o meno complessi, le persone che vanno dalla fascia di età tra i 20 in poi per lo più si presentano per tre motivi:
Un motivo è per lo più palesementesintomatico ed ha a che fare con i frequenti attacchi di panico o l’ansia generalizzata che per la loro frequenza ostacolano il vivere quotidiano, allontanano sia dalla sfera lavorativa, sia dalla sfera più prettamente sociale. Solitamente chi ne soffre gravemente tende a rinchiudersi nella nicchia familiare ma spesso tutto questo sfocia in stati depressivi che si cronicizzano col tempo in vere e proprie problematiche patologiche.
Il secondo motivo riguarda per lo più un sentito personale svalutante, distimico verso sé dettato dall’insicurezza di proseguire la propria vita e una netta dipendenza dal giudizio altrui, siamo nelle problematiche più delicate, abbiamo a che fare con la realizzazione della propria identità che non ha mai fine. In ogni fase della vita ci può essere una necessità di ricostruire in maniera intima il proprio senso del sé.
Il terzo riguarda più prettamente le situazioni relazionali, difficoltà a trovare un partner, a mantenere la relazione, a fidarsi in una dinamica di co- costruzione con l’altro, il perno principale è la fiducia, le delusioni. Diverse condizioni traumatiche che hanno a che fare con la relazione con gli altri si ripercuotono in un malessere psichico, sono molto diffuse anche le dipendenze relazionali e purtroppo i cosiddetti disturbi di personalità borderline, narcisistiche e dipendenti. Le problematiche di coppia sono sempre presenti, poichè le fasi critiche della coppia sono inevitabili ma non sempre risolvibili senza la consapevolezza necessaria per superarle.
Una problematica a sé, molto frequente più di quella che si creda sono i disturbi ossessivi compulsivi, la mania del controllo che spesso nasconde una difficoltà nella tolleranza emotiva verso se stessi e verso gli altri, un modo molto faticoso di gestire la vita e renderla ferma a qualcosa che in realtà è trascorsa e la difficoltà di riconoscere stati emotivi importanti come per esempio la rabbia, la vergogna, i limiti, il rischio degli inevitabili fallimenti. Il disagio per se e per gli altri con i quali convivono diviene pesante e disfunzionale.
Quindi il lavoro terapeutico è molto delicato, soprattutto con i giovani che lottano con la loro realizzazione, con gli adulti che ritrattano scelte di vita poche consone con il proprio sé presente;
L’identità collegata alla formazione della personale autostima è sempre il perno di tutto, inizia dalla nostra nascita e progredisce per l’intera vita; spesso non si riconoscono gli inevitabili cambiamenti, si ostacola la realizzazione anziché assecondarla naturalmente, il disconoscimento di emozioni importanti e la regolazione emotiva è alla base di molti disagi.
Aggiungo a tutto ciò disagi importanti ed esistenziali che in terapia hanno la possibilità di trovare un posto espressivo e confrontativo privo di giudizio ma carico di comprensione e supporto empatico in cui non è possibile esperire in alcun altro luogo o con nessun altra persona, al di fuori del fidato terapeuta scelto liberamente da chi sente che con lui o con lei può comprendersi meglio di quanto sia avvenuto fino a quel momento della sua vita.
La psicoterapia è un lavoro di consapevolezza, una nuova opportunità di ritrovarsi e crescere anche se non sempre porta ad un cambiamento visibile esterno, porta a fare pace con se stessi in una relazione tutelata dalla privacy e dalla relazione umana col terapeuta, è un incontro emotivo, affettivo ed elaborativo con il proprio vissuto; i più coraggiosi poi osano cambiamenti visibili agli altri.
Ciò che conta è vivere la propria vita con maggiore autenticità e onestà con se stessi poi ognuno ha i propri tempi e la propria soggettività esperienziale e affettiva da rispettare. Tutto ciò facilita un processo di vita in evoluzione in una soggettività che attende di riconoscersi ed esprimersi.
Una psicoterapeuta ad approccio psicodinamico che utilizza l’emdr? Veramente complicato ma possibile.
Mi sono avvicinata a questa tecnica per curiosità come ho fatto con altre formazioni , ma continuo a lavorare con l’approccio a cui credo maggiormente, ossia la psicoanalisi integrando però quando necessario sia la mindfulness che l’emdr ma anche la gestalt.
Nello specifico vediamo cos’è l’ emdr:
Che cos’è l’EMDR?
L’EMDR (dall’inglese Eye Movement Desensitization and Reprocessing, Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari) è un approccio terapeutico utilizzato per il trattamento del trauma e di problematiche legate allo stress, soprattutto allo stress traumatico. L’EMDR si focalizza sul ricordo dell’esperienza traumatica ed è una metodologia completa che utilizza i movimenti oculari o altre forme di stimolazione alternata destro/sinistra per trattare disturbi legati direttamente a esperienze traumatiche o particolarmente stressanti dal punto di vista emotivo.
Dopo una o più sedute di EMDR, i ricordi disturbanti legati all’evento traumatico hanno una desensibilizzazione, perdono la loro carica emotiva negativa. Il cambiamento è molto rapido, indipendentemente dagli anni che sono passati dall’evento. L’immagine cambia nei contenuti e nel modo in cui si presenta, i pensieri intrusivi in genere si attutiscono o spariscono, diventando più adattivi dal punto di vista terapeutico e le emozioni e sensazioni fisiche si riducono di intensità. L’elaborazione dell’esperienza traumatica che avviene con l’EMDR permette al paziente, attraverso la desensibilizzazione e la ristrutturazione cognitiva che avviene, di cambiare prospettiva, cambiando le valutazioni cognitive su di sé, incorporando emozioni adeguate alla situazione oltre ad eliminare le reazioni fisiche. Questo permette, in ultima istanza, di adottare comportamenti più adattivi. Dal punto di vista clinico e diagnostico, dopo un trattamento con EMDR il paziente non presenta più la sintomatologia tipica del disturbo post-traumatico da stress, quindi non si riscontrano più gli aspetti di intrusività dei pensieri e ricordi, i comportamenti di evitamento e l’iperarousal neurovegetativo nei confronti di stimoli legati all’evento, percepiti come pericolo. Un altro cambiamento significativo è dato dal fatto che il paziente discrimina meglio i pericoli reali da quelli immaginari condizionati dall’ansia.
Si sente che veramente il ricordo dell’ esperienza traumatica fa parte del passato e quindi viene vissuta in modo distaccato. I pazienti in genere riferiscono che, ripensando all’evento, lo vedono come un “ricordo lontano”, non più disturbante o pregnante dal punto di vista emotivo.
Dopo l’EMDR il paziente ricorda l’evento ma il contenuto è totalmente integrato in una prospettiva più adattiva. L’esperienza è usata in modo costruttivo dall’individuo ed è integrata in uno schema cognitivo ed emotivo positivo. Cioè il paziente realizza le connessioni di associazioni appropriate, quello che è utile è appreso ed immagazzinato con l’emozione corrispondente ed è disponibile per l’uso futuro.
Quali sono le basi dell’EMDR?
L’approccio EMDR, adottato da un numero sempre crescente di psicoterapeuti in tutto il mondo, è basato sul modello di elaborazione adattiva dell’Informazione (AIP). Secondo l’AIP, l’evento traumatico vissuto dal soggetto viene immagazzinato in memoria insieme alle emozioni, percezioni, cognizioni e sensazioni fisiche disturbanti che hanno caratterizzato quel momento. Tutte queste informazioni immagazzinate in modo disfunzionale, restano “congelate” all’interno delle reti neurali e incapaci di mettersi in connessione con le altre reti con informazioni utili. Le informazioni ”congelate” e racchiuse nelle reti neurali, non potendo essere elaborate, continuano a provocare disagio nel soggetto, fino a portare all’insorgenza di patologie come il disturbo da stress post traumatico (PTSD) e altri disturbi psicologici. Le cicatrici degli avvenimenti più dolorosi, infatti, non scompaiono facilmente dal cervello: molte persone continuano dopo decenni a soffrire di sintomi che ne condizionano il benessere e impediscono loro di riprendere una nuova vita.
L’obiettivo dell’EMDR è quello di ripristinare il naturale processo di elaborazione delle informazioni presenti in memoria per giungere ad una risoluzione adattiva attraverso la creazione di nuove connessioni più funzionali. Una volta avvenuto ciò, il paziente può vedere l’evento disturbante e se stesso da una nuova prospettiva. L’EMDR considera tutti gli aspetti di un’ esperienza stressante o traumatica, sia quelli cognitivi ed emotivi che quelli comportamentali e neurofisiologici. Utilizzando un protocollo strutturato il terapeuta guida il paziente nella descrizione dell’evento traumatico, aiutandolo a scegliere gli elementi disturbanti importanti. Al termine della seduta di EMDR, quando il processo di rielaborazione ha raggiunto la risoluzione adattiva, l’esperienza è usata in modo costruttivo dalla persona ed è integrata in uno schema cognitivo ed emotivo positivo.
Attraverso il trattamento con l’EMDR è dunque possibile alleviare la sofferenza emotiva, permettere la riformulazione delle credenze negative e ridurre l’arousal fisiologico del paziente.
Questo approccio risulta efficace anche con i pazienti che hanno difficoltà nel verbalizzare l’evento traumatico che hanno vissuto. L’EMDR, infatti, utilizza tecniche che possono fornire al paziente un maggior controllo verso le esperienze di esposizione (poiché non si basa su interventi verbali), e che possono aiutarlo nella regolazione e nella gestione delle emozioni intense che potrebbero scaturire durante la fase di elaborazione.
L’EMDR come approccio evidence -based
Nel lasso di trent’anni dalla sua scoperta, ad opera della ricercatrice americana Francine Shapiro, l’EMDR ha ricevuto più conferme scientifiche di qualunque altro metodo usato nel trattamento dei traumi. Oggi è riconosciuto come metodo evidence based per il trattamento dei disturbi post traumatici, approvato, tra gli altri, dall’American Psychological Association (1998-2002), dall’American Psychiatric Association (2004), dall’International Society for Traumatic Stress Studies (2010) e dal nostro Ministero della salute nel 2003. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, nell’agosto del 2013, ha riconosciuto l’EMDR come trattamento efficace per la cura del trauma e dei disturbi ad esso correlati.
L’efficacia dell‘EMDR è stata dimostrata in tutti i tipi di trauma, sia per il Disturbo Post Traumatico da Stress che per i traumi di minore entità. La ricerca recente mostra che, attraverso l’utilizzo dell’EMDR, le persone possono beneficiare degli effetti di una psicoterapia che una volta avrebbe impiegato anni per fare la differenza. Alcune ricerche hanno infatti dimostrato che tra l’84% e il 90% dei pazienti che riportavano l’esperienza di un singolo evento traumatico non mostravano più i sintomi di un Disturbo da Stress Post-traumatico dopo sole 3 sessioni di EMDR da 90 minuti ciascuna. L’efficacia dell’EMDR nel trattamento del PTSD è ormai ampiamente riconosciuta e documentata, ma attualmente l’EMDR è un approccio terapeutico ampiamente usato anche per il trattamento di varie patologie e disturbi psicologici. Data l’importanza che gli eventi traumatici (siano essi traumi singoli che cumulativi e relazionali) rivestono nello sviluppo di differenti patologie, diviene importante affrontarle attraverso un approccio che tenga in considerazione e riesca ad intervenire sull’origine traumatica di tali disturbi.
La ricerca riguardante l’EMDR è una delle prime in cui sono stati evidenziati i cambiamenti neurobiologici che si verificano durante ogni seduta di psicoterapia, rendendo l’EMDR il primo trattamento psicoterapeutico con un’efficacia neurobiologica provata. Le scoperte in questo campo confermano l’associazione tra i risultati clinici di questa terapia e alcuni cambiamenti a livello delle strutture e del funzionamento cerebrale.
Freud ne parlò tanto anche se in una posizione “fallocentrica” questo significa che la individuava con molta frequenza nei suoi pazienti, ma non solo, essendo la persona che era, l’aveva subita fortemente nella sua vita. Come non si faceva ad invidiare Freud e la sua mente?
Infatti, il primo sentimento di cui si parla in psicoterapia è sempre “l’amore” e le sue pene, non lo batte nessuno … ma il secondo, almeno nella mia esperienza clinica è “l’invidia”, molti la subiscono ma i più coraggiosi parlano di quella che sentono. Sono molto fortunata, “Voi mi aprite i mondi più veri”.
Per definizione l’invidia è un sentimento distruttivo sia per chi la prova sia per chi la subisce. Ha a che fare col sentimento di ostilità e rancore per chi possiede qualcosa che il soggetto invidioso desidera, ma non possiede.
Durante la psicoterapia le persone che la provano, col tempo riescono a trasformarla in sana ammirazione ma quel che è più importante è che la trasformano in una sana ambizione e realizzazione verso la propria persona, non guardano più gli altri ma responsabilizzano se stessi, nei casi di più successo terapeutico divengono empatici verso l’altro e riconoscono la diversità, ampliano le loro prospettive; ecco perché si dice che le persone invidiose sono quelle più frustrate, tendono a mettere in cattiva luce gli altri anziché responsabilizzarsi ed esplorare i loro sani attributi, purtroppo non ne sono capaci ma non lo riconoscono e la terapia aiuta a rintracciare il cosiddetto nucleo realizzativo del sé, per una maggiore soddisfazione della propria persona e garantire l’autostima.
Le persone che la subiscono invece imparano a tutelarsi e pian piano a non sentirsi in colpa per il loro modo di essere, e imparano a godere delle proprie realizzazioni personali, e come è giusto che sia a circondarsi di persone che riconoscono anziché disconoscono la loro persona. In ogni caso, non è per niente semplice poiché tutto ciò è tristemente umano ed è dettato dalle prime relazioni infantili, il rapporto tra fratelli o da mancate elaborazioni intergenerazionali che si trasmettono da una famiglia all’altra con quella coazione a ripetere senza fine di cui parlava Freud, ma è poco rintracciabile perché agisce inconsciamente.
Heinz Kohut supporta l’idea del “narcisismo sano” ossia quello legato alla possibilità di realizzarsi come persone, parla di realizzazione del proprio sé e dà importanza ai valori, ai principi e alle ambizioni personali, al circondarsi di persone che supportano con empatia… tutti fattori importanti che inducono alla realizzazione dell’uomo e alla sua possibilità di avere un’autostima sana.
Tutto questo può avvenire in maniera lineare e serena se c’è stato un ambiente affettivo ed emotivo, rappresentato da persone capaci di sintonizzarsi con i reali bisogni del bambino, futuro adulto, altrimenti si rischia di perdersi o di ricercare continue ed effimere conferme su altri fronti privi di sostanza e di scarsa realizzazione.
Kohut prende in esame un punto dolente di tante persone ossia la “ferita narcisistica”, se tutto ciò che ho descritto poc’anzi non è avvenuto si crea una ferita profonda che compromette l’autostima e la possibilità di realizzare il proprio sé.
Un altro punto importante che può interferire con la realizzazione del sé è “l’invidia” che alcune persone hanno subito da parte di chi invece avrebbe dovuto amare.
Riflettete sulla vostra infanzia, avevate un rapporto particolare con qualche adulto, vostro punto di riferimento affettivo? A chi ha disturbato questa relazione? Oppure a chi ha suscitato invidia una vostra indole particolare?
Quando si è bambini non si ha la capacità di elaborare cognitivamente cosa accade intorno a sé, si sentono emozioni forti, spesso confuse che qualcosa stia interferendo ingiustamente con la sana crescita.
A tal proposito cito letteralmente una passo significativo tratto da Potere e Coraggio di Heinz Kohut, maggiore esponente e studioso delle problematiche di personalità narcisistiche:
“Fin da quando ha cominciato a svilupparsi la nostra consapevolezza, queste forze ci hanno reso timorosi di esprimere liberamente la nostra iniziativa, l’emergere del nostro sé centrale ha suscitato una spaventosa reazione di invidia, che è una manifestazione del narcisismo ferito di coloro che ci stanno intorno. La totale affermazione del nostro Sé nucleare è quindi per gran parte di noi oltre la portata del nostro coraggio”.
“NOI CI ALLONTANIAMO DALLE NOSTRE METE E DAI NOSTRI IDEALI PIU’ AUTENTICI, LI FALSIFICHIAMO E LI INDEBOLIAMO”.
Tutto questo aggiungo per mantenere dei pseudo affetti, ma c’è da ricordarsi che i veri affetti supportano, alimentano amore, ammirazione, anziché distruzione.
Ora vi porto a riflettere con questa fiaba e trarrete voi le conclusioni di alcune dinamiche distruttive a cui porta l’invidia, laddove sanamente invece dovrebbe svilupparsi “ammirazione” o semplicemente “riconoscimento” dell’altro diverso da sé.. Le qualità dell’invidiato vengono negate, disconosciute ma nella fiaba emerge che per farlo c’è bisogno di strategie di gruppo, di una forza più grande, di una suggestiva convinzione affinché l’invidiato venga distrutto, in effetti ne esce distrutto ma la risoluzione sta sempre nell’intelligenza di chi invece è capace di altro nonostante tutto.
Buona riflessione
“Il gallo meraviglioso”.
Tratto dal libro “Fiabe dell’Africa”, curato dalla Onlus Thiaroye sur Mer,
Mancava poco al tramonto, il cielo, tutto colorato di arancio, prendeva in prestito dalla notte il suo travestimento più enigmatico. Nella città pervasa dal rumore di un torrente, un vecchio vicino a morire chiamò il suo unico figlio e gli disse: “Ascolta mia dolce creatura, presto ti lascerò per ricongiungermi con i nostri antenati. Ho pensato a te, io ti lascio in eredità il gallo meraviglioso che ha fatto la fortuna di mio padre, affinché assicuri anche per te la ricchezza. Grazie a lui potrai avere una vita felice e fare sempre l’elemosina ai poveri. Non è un gallo che si incontra in tutti i pollai. Da più generazioni viene tramandato di padre in figlio. Tu veglierai d’ora in poi su di lui con molto impegno”. Morto che fu il padre, il figlio organizzò un grandioso funerale dove convocò i parenti e gli amici.
Trascorso il periodo del lutto, il giovanotto decise di partecipare col suo gallo da combattimento a molti tornei, dove si trovò a lottare con i migliori galli del mondo. Per molti anni il gallo vinse tutti i combattimenti, procurando al suo proprietario fortuna e considerazione. Tutti i re lo volevano comprare, ma egli non accettò di sbarazzarsene nemmeno quando glielo avrebbero acquistato a peso d’oro. Diventato potente e ricco, costruì un immenso palazzo sulle rovine della sua vecchia capanna di paglia. Aveva tanti servi e procurava molto lavoro alla gente che aveva d’intorno. Creò una scuola per i fanciulli del villaggio dove apprendevano la conoscenza di molte discipline.
Questo successo non avvenne senza suscitare molte gelosie! Una sua vicina, invidiosa della sua felicità, decise di rendergli la vita più dura. Ella ebbe l’idea di seminare del mais da portare al gallo e questi si precipitò sui chicchi appetitosi e non smise di mangiarli finché non fu sazio: diventò così grasso che poteva appena camminare.
Fu a quel punto che la crudele donna andò a far visita al suo vicino e gli disse: “Il tuo gallo ha rubato il mio mais e non mi è rimasto niente da mangiare”.
Il giovane, imbarazzato, rispose: “Cara amica, calmati, ti pagherò il tuo mais!”
“No!” esclamò lei “no, no e poi no! Io rivoglio il mio mais, quello che il tuo gallo ha mangiato! Uccidi il tuo gallo e rendimi il mio mais!”.
L’atmosfera era tesissima, piena di elettricità, come quando sta per scatenarsi un temporale. L’ingannatrice, piena di collera, resa cieca dalla cupidigia, si mostrò irremovibile. Disperato il giovane gli offrì tutte le sue ricchezze, il suo palazzo, i suoi gioielli, i suoi diamanti, al fine di salvare il gallo, ma non servì a farle cambiare idea. Imperturbabile, la donna considerava la sua decisione non negoziabile. Il problema fu portato davanti al garante della legge che ascoltò la discussione. Gelosi come erano, tutti i membri della Giuria richiesero la morte del colpevole che con la pancia piena sonnecchiava nell’orto; andarono a prenderlo e lo sbuzzarono.
I chicchi di mais furono restituiti alla proprietaria ma intanto il povero volatile, non resistendo alle ferite, morì. Crudelmente provato da questa ingiustizia, il giovane deperì a vista d’occhio. Colpito dal dolore, era distrutto e ogni giorno più triste. Sotterrò in segreto il cadavere del gallo dietro il suo palazzo e, ferito nel profondo dell’animo, si rinchiuse per molti mesi nella sua abitazione. Un giorno, nel posto dove riposava il gallo, nacque un mango dai frutti allettanti. La vicina invidiosa, che era ghiotta e sfrontata, andò a chiedere un frutto al proprietario del mango, che non rifiutò. La donna fece venire il suo unico figlio e lo spinse a mangiarne anche lui. Così ne colsero molti, al posto di uno solo.
Il giorno dopo, al levarsi del sole, in assenza del proprietario dell’albero, il figlio della donna cattiva andò di nuovo, questa volta senza autorizzazione, a cogliere i deliziosi frutti. Salito in cima al mango, sceglieva quelli più maturi e li mangiava, ma stupidamente lasciava cascare i noccioli e le bucce in terra. Il proprietario dell’albero, tornando dalla sua passeggiata, si accorse del fanciullo appollaiato lassù su un ramo dell’albero; questi masticava un frutto e sembrava completamente indifferente alla sua presenza. A un tratto un mango, sfuggito dalle mani del ladruncolo, cascò sulla testa del proprietario. Furioso e assetato di vendetta, l’uomo batté il gong e radunò tutto il villaggio.
Appena tutti furono riuniti, egli dichiarò minaccioso: “Chi ha mangiato i miei manghi deve restituirmeli!” Tutti i presenti approvarono.
Informata dell’Assemblea, la madre del colpevole si presentò tutta trafelata e disse al proprietario: “Bene ti restituirò i tuoi frutti!”
Ma lui, ricordandosi della morte ingiusta del gallo, le disse “Oh donna, poiché la tua giustizia fu buona per il passato, questa lo sarà di nuovo in questo giorno. Io ti reclamo proprio quei frutti che sono stati mangiati da tuo figlio”.
Il Consiglio dei saggi riconobbe ch’egli era in diritto di esigere una giustizia equa. Piangendo e supplicando il suo vicino, la donna offrì tutti i suoi poveri beni in cambio della vita del figlio. Niente da fare, secondo la legge, il ragazzo doveva subire la stessa sorte del povero gallo. Tuttavia l’uomo dichiarò che era pronto a perdonare tutte le cattiverie passate. Egli si ritirò dunque nel suo palazzo, lasciando salvo il figlio della vicina.
Scioccata da tutta quella confusione, risparmiata dalla sorte, ma vergognandosi, la donna comprese che suo figlio doveva la vita a quest’uomo. Supplicò allora il cielo di liberarla della sua gelosia e dei suoi passati misfatti. Il destino le aveva dato una dolorosa lezione ed ella comprese infine che l’invidia distrugge chi la nutre. Il giorno dopo questo fatto, il mango cominciò a dare dei frutti d’oro. Si dice che ne fornisca ancora.
A cura di Marialba Albisinni
Bibliografia
Potere Coraggio e Narcisismo – Heinz Kohut, Astrolabio
Fiabe dell’Africa, curato dalla Onlus Thiaroye sur Mer,
Nella famiglia che si viene a creare si incrociano tre forme di legame, quello coniugale, quello genitoriale, e quello intergenerazionale, quest’ultimo ha a che fare con il legame della famiglia di origine.
Non ci si può unire in modo soddisfacente se prima non ci si è separati da un rapporto in cui ciascuno dei partecipanti non è in grado di riconoscere il proprio spazio personale, la propria individuazione dalla famiglia di origine. La separazione è in realtà un processo che può durare tutta la vita senza mai essere portato a termine (Andolfi, Angelo, 1987).
Quando due persone si uniscono con l’intenzione di formare una famiglia, formano una nuova unità familiare; uno dei compiti che la nuova famiglia deve affrontare è quella di negoziare questioni affettive e di indipendenza con la famiglia d’origine. Un lavoro emotivo a volte molto faticoso.
Da un nuovo legame nasce la coppia coniugale e tuttavia se da una parte le coppie sperimentano nuovi contratti relazionali, le idee delle famiglie di origine e della società in generale intorno ai ruoli, ai diritti di responsabilità della moglie e del marito, del padre e della madre, esercitano una influenza molto potente sui contratti e sui modelli interattivi che evolvono nel corso del ciclo vitale.
La famiglia subisce un’evoluzione, passando stadi che richiedono continue ristrutturazioni, dovrebbe adattarsi a situazioni nuove, mantenere continuità e assicurare crescita psico-sociale a ciascuno dei suoi membri, dipende molto dalla flessibilità e dal grado di trasformarsi alle nuove situazioni, tra appartenenza e individuazione.
Perché la famiglia funzioni bene la chiarezza dei confini è un parametro utile per la valutazione del funzionamento, i confini sono le regole che definiscono chi partecipa e come, per esempio citando Minuchin studioso della psicoterapia familiare, un confine del sistema definito dalla madre può essere quello di non delegare responsabilità genitoriali ai figli maggiori “tu non sei il padre di tuo fratello”.
La funzione dei confini è di proteggere la differenziazione del sistema e dei suoi componenti. Affinché la famiglia funzioni più o meno bene i confini tra i sottosistemi debbono essere chiari, un sistema genitoriale che includa una nonna per esempio può funzionare molto bene nella misura in cui le linee di responsabilità e di autorità sono chiaramente tracciate. Se i confini non sono chiari si può rincorrere all’invischiamento, per esempio figli triangolati nelle responsabilità che non spettano a loro, genitori disimpegnati da responsabilità prettamente genitoriali, oppure invischiamenti pericolosi nella famiglia di origine di uno dei componenti che non facilita la crescita della nuova e la possibilità di crescere ed individuarsi dai problemi vissuti nel contesto intergenerazionale.
Noi terapeuti, ascoltando le storie dei nostri pazienti, veniamo a conoscenza di come l’influenza delle famiglie di origine, senza confini e senza differenziazioni, le cosiddette famiglie a porte aperte, invadenti, dove tutti sanno tutto di tutti, dove tutti devono fare tutto ciò che fa l’altro, sovrasta le decisioni e la crescita dell’individuo e del nuovo nucleo familiare spesso mettendo in crisi i nuovi legami.
Gli studi fatti in tutti questi anni di chi si occupa di queste problematiche ci spiegano come gli invischiamenti o le troppe rigidità di confini portano a strutturare da parte di un componente, solitamente il figlio ad essere un “paziente designato” che dà voce ad un disagio più grande di lui, si sovraccarica il problema, direi che paradossalmente è il più responsabile ma che potenzialmente rischierà una patologia.
Sarà lui il paziente designato di questa malsana famiglia, invischiata o all’interno del suo sottosistema o in modo intergenerazionale, ad urlare col sintomo, un disagio che non sa spiegare e che l’appartenenza non comprende perché non si responsabilizza per uscirne ma delega accuse che il designato non regge, assorbe tensioni intergenerazionali per nulla elaborate che non sono sue.
Ma come potrà venirne fuori se il sistema non cambia?
Sicuramente ci vuole tanto lavoro psicoterapeutico. Per tutelare la sanità psicologica, ogni famiglia d’origine dovrebbe adeguarsi alla separazione totale o parziale dei suoi membri, all’inclusione del nuovo membro e all’assimilazione del nuovo sottosistema di coniugi. Se non cambiano le strutture da lungo tempo stabilite dalla famiglia di origine, possono costituire una minaccia per i processi di formazione della nuova unità e della sua crescita.
Quindi la nuova famiglia non ha molte speranze di crescita se non cresce nella sua individuazione e non si confina in modo chiaro da quella di origine ma anche e soprattutto al suo interno, mantenendo l’apertura verso la comunicazione, la vicinanza emotiva e il sostegno. Non è una questione semplice, chi ne è incastrato conosce benissimo i meccanismi di ritorsione emotiva a cui deve sottostare dalla sua appartenenza, ha grande difficoltà ad individualizzarsi come persona autonome e i processi di identificazione con il genitore viene confuso, generando problematiche che riguardano l’indipendenza, l’identità e e il rapporto successivo di coppia.
I casi eclatanti riguardano i padri cosiddetti periferici, madri che sono legati alla famiglia di origine, o viceversa padri attaccati alle loro famiglie di origine … mantengono i ruoli rigidi, e non danno mai lo spazio giusto alla decisione del coniuge di essere parte di un nuovo sistema familiare, il tutto si complica con l’arrivo dei figli; pur di non perdere il vecchio ruolo nella propria famiglia di origine, si finisce un sistema di stallo di dipendenza che si rifletterà in modo malsano nelle nuove generazioni.
Il benessere familiare e individuale equivale alla possibilità di evolversi e differenziarsi dalla famiglia di origine e come individui all’interno della nuova famiglia. L’aspetto più difficile è mantenere il legame e al contempo proteggersi dalle ritorsioni di chi invece non accetta tale crescita maturativa. Attenzione perché chi ne rimette e rischia di subire una patologia sono “i figli incastrati in malsani invischiamenti intergenerazionali, di questioni non elaborate in precedenza”.
In altri termini ogni generazione ha il compito di mantenere vivo il legame con le altre generazioni, ma nello stesso tempo è chiamata a strutturare e organizzare in modo originale la propria identità così da arricchire in modo creativo e sano la propria storia familiare e la propria crescita personale.
A cura di Marialba Albisinni
Bibliografia
La crisi della coppia –Una prospettiva sistemica relazionale-M. Andolfi, Cortina
Famiglie e terapia della famiglia – Salvador Minuchin Astrolabio
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Si tratta della norma UNI10459. E’ uscita nel 2015 ma ritengo sia comunque di interesse darne massima diffusione. L’UNI, Ente Italiano di Normazione, ha infatti pubblicato la norma che si occupa dei professionisti della Security, definendo i requisiti di conoscenza, abilità e competenza che dovrà possedere il – così detto – security manager.
L’UNI, Ente che aveva avviato il tavolo sul “Counseling relazionale” poi fatto sospendere dal Ministero della Salute grazie all’intervento dell’Ordine Psicologi (punto 4), in questo caso ha prodotto delle Linee che incoraggiano l’uso della competenza psicologica.
Tale normativa è stata riorganizzata nel 2017 per cui lo psicologo deve accertarsi che IL PROFESSIONSTA DELLA SECURITY abbia le caratteristiche comportamentali richieste secondo la normativa.
Il professionista della Security adotta schemi comportamentali che richiamino e rispettino i principi di integrità professionale, nel rispetto dell’operato proprio e dei colleghi sottoposti.
Chi è il Security Manager?
E’ il responsabile della sicurezza e si occupa di gestire e controllare tutti gli aspetti relativi alla sicurezza di una organizzazione. Può lavorare sia all’interno del settore pubblico che all’interno di quello privato.
La certificazione dello Psicologo
La norma prevede che il candidato alleghi “alla Domanda di certificazione un Certificato rilasciato da Psicologo iscritto ad Ordine che attesti il possesso delle caratteristiche psicoattitudinali e di personalità, di cui all’appendice C e D della UNI 10459:2017.”
Nello specifico, vengono elencate le seguenti dimensioni:
alta integrità morale;
assenza di pregiudizi;
equità, eguaglianza e imparzialità;
tutela della persona;
diligenza;
trasparenza;
riservatezza;
controllo dell’emotività;
accuratezza nel riportare i fatti ed illustrare in modo chiaro concetti e idee sia verbalmente sia per iscritto;
flessibilità e capacità di adattamento alle situazioni contingenti, adeguando con tempestività ed efficacia le proprie risposte;
capacità di assumere rapidamente ed efficacemente decisioni afferenti ad emergenze o pericoli imminenti;
capacità di interagire efficacemente con tutti i livelli dell’Organizzazione e le istituzioni di riferimento;
spirito di osservazione e perspicacia;
atteggiamento aperto alle innovazioni.
ACCREDITA l’Ente che accredita i vari Organismi di Certificazione ed Ispezione, conferma che i vari Organismi devono procedere a richiedere la certificazione dello psicologo, così come deliberato dal Comitato UNI del Settembre 2015, e dalla riorganizzazione normativa del 2017.
Si consiglia di telefonare direttamente o di lasciare un messaggio via whattapp specificando la richiesta. Grazie
Tu puoi scrivere di me nella storia, con le tue bugie amare e contorte.
Puoi calpestarmi nella sporcizia ma io, come la polvere, mi solleverò.
La mia sfacciataggine ti irrita? Perché sei assediato dalla malinconia? Perché io cammino come se avessi pozzi di petrolio che sgorgano nel mio salotto.
Proprio come le lune e i soli, con la certezza delle maree, proprio come la speranza che alta si slancia, ancora io mi solleverò. Volevi vedermi spezzata? Con la testa china e gli occhi bassi? Le spalle cadenti come lacrime. Indebolita dal mio pianto, che viene dall’anima.
La mia superbia ti offende? Non prenderla così male. Perché io rido come se avessi miniere d’oro scavate nel mio cortile. Puoi spararmi con le tue parole. Puoi ferirmi con i tuoi occhi. Puoi uccidermi con il tuo odio, ma io, come l’aria, mi solleverò. È la mia sensualità a disturbarti?
Ti arriva come una sorpresa, il fatto ch’io danzi come se avessi diamanti all’incrocio delle mie cosce? Fuori dalle capanne della vergogna della storia, mi sollevo. Su, da un passato che ha le radici nel dolore, mi sollevo. Sono un oceano nero, ampio, che balza, zampillando e gonfiandomi, genero nella marea.
Lasciando alle spalle notti di terrore e paura, mi sollevo. In un’alba che è meravigliosamente chiara, mi sollevo. Portando i doni che i miei antenati mi diedero, io sono il sogno e la speranza dello schiavo.
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